da pierodm il 11/01/2009, 2:43
Gli argomenti del forum sono come una rete stradale: tutti portano dappertutto, o quasi.
Ce ne sono alcuni, però - come questo - che sono come quelle piazze dove arrivano e partono molte strade.
Per questa ragione vale la pena insistere a ragionarci sopra, dato per esempio che ne è venuto fuori un contrasto forse non plateale, ma profondo, tra diverse concezioni del rapporto tra politica ed economia.
Prima di tutto, c'è un errore originario, del quale ho già accennato, nel mettere insieme alcune "categorie" di natura differente e non assimilabili: politica, economia, cultura, nello specifico.
Sul piano pratico-empirico, cioè nell'approssimazione esistente nelle conversazioni quotidiane, la commistione può funzionare per capirsi all'ingrosso. Ma non può esistere laddove - come fa Franz - ci si vuole impiantare sopra una teoria, una tesi che ha la giusta ambizione di essere "precisa".
La politica e la cultura, tanto per dirne una, hanno la funzione intrinseca di occuparsi di altro da sé, e quindi rimane difficile affermare che non devono invadere campi fuori dalla loro competenza.
Per dire - anzi, ripeterne - un'altra, l'economia non è un soggetto, ma un fenomeno, e dunque non ha senso delimitarne le eventuali "competenze".
In quanto fenomeno l'economia investe - cioè trae risorse, genera conseguenze - tutti i campi della vita sociale e individuale: ciò non deriva da una "scelta", ma dalla natura stessa del fenomeno.
Tutto ciò significa che non si tratta di stabilire una specie di "giurisdizione territoriale" tra queste entità diverse, stabilendo un rapporto di vassallaggio dell'una sull'altra.
La loro esistenza e azione si svolge in realtà su piani diversi: quello della politica è la gestione del potere, quello dell'economia è la produzione di ricchezza.
"Gestione del potere" significa però gestione di tutti gli altri poteri: questo è il punto che fa entrare la politica in collisione con tutte le altre attività, con tutti i fenomeni.
Il problema si pone in forma di "gerarchia" soprattutto nel regime democratico, nel quale i rapporti di potere si manifestano canonicamente tramite diritto ed "egemonia", più che sotto forma di braccio di ferro cruento e autoritario, come avveniva negli antichi regimi tra il re e i proprietari terrieri, o i "grassi borghesi", i grandi elettori, etc.
Epoche nelle quali era un elemento di libertà e di progresso - di "dinamismo", in linguaggio più neutro - il fatto che il potere della cultura e quello stesso della borghesia produttiva entrassero in conflitto con "la politica", cioè con il potere autarchico del re o quello dell'aristocrazia.
E' l'esistenza degli altri poteri, e la loro forza, che fa diventare necessario il potere della politica e la sua supremazia nello stato di diritto democratico - fermo restando che il potere economico non è quello, o solo quello, dei singoli attori economici, ma è il potere del fenomeno in se stesso, la sua estensione, la vastità delle sue conseguenze.
Il fatto che in democrazia questo potere della politica non si esprima nei "piani quinquennali" non significa che non esista: il piano quinquennale è la manifestazione estrema di uno statalismo antiquato e autoritario.
Fare questo genere di raffronto è come dire che, siccome gli aerei sono stati usati per bombardare in guerra, dobbiamo abolire l'aviazione, sia civile che militare.
Tornando ai "campi di competenza", il vero e unico soggetto è il corpo sociale: la politica è - dovrebbe essere - la capacità di questo soggetto di governare tutte le sue varie funzioni, averne coscienza e saper regolare le proprie azioni in base a questa coscienza: compresi i fenomeni biologici e metabolici necessari alla sopravvivenza.
Dividere, spezzettare questa unitarietà del soggetto è una tentazione tecnocratica, ma è un sistema che alla fine provoca più danni che vantaggi.
Per esempio, sarebbe assurdo pensare che la "cultura" di un soggetto deve "restare fuori" dalle sue attività produttive - a parte il fatto che queste attività sono parte integrante della cultura, intesa come evoluzione e coscienza di sé.
Sono certo che Franz - che qui si fa promotore di una visione, invece, frammentata - non può non essere d'accordo con questi vari passaggi.
Però si lascia trascinare dalla volontà di affermare il principio della "compatibilità economica" - che nessuno per altro contesta - come se questa fosse una virtù della "economia", e non si rende conto che questo genere di valutazioni rientrano totalmente proprio in quella "potestà politica" che cerca in tutti i modi di minimizzare.
Ho l'impressione che Franz - e con lui un'intera corrente di pensiero - quando pronunciano il termine "politica" hanno in mente la stessa cosa di quando pronunciano quello di "ideologia", ossia la "sinistra", lo statalismo, l'URSS, e magari per fare buon peso pure Pol Pot, che ci sta sempre bene.
Rimanendo sul piano terra terra, senza teorizzazioni, vorrei ricordare che esiste tanto una "politica reale" - sporchetta, ignorante, scriteriata - quanto una "economia reale" altrettanto sporca, ignorante e scriteriata.
Se scegliamo di idealizzare una, dobbiamo fare lo stesso con l'altra, e ugualmente se siamo realisti con una, siamo realisti anche con l'altra: non è questione di "equanimità" ma di logica.
Per quanto riguarda le pensioni, personalmente ho l'idea che dovrebbero essere tutte uguali, a prescindere da mestiere, professione, sesso, status giuridico del lavoro, etc.
La pensione non è la riscossione di un premio, o un salario post-datato, ma un servizio ai cittadini che li metta in grado di sopravvivere.