Pubblicato: Sab, 28/09/2013 - 07:00
Da L'Intraprendente di Carlo Lottieri
Di fronte all’ipotesi di un’Alitalia che sta per diventare “francese” (non è una notizia: è da anni che le cose stanno in questi termini) e soprattutto di una Telecom che diventa “spagnola”, sembra che la fasulla opposizione destra-sinistra che da vent’anni caratterizza la politica italiana sia del tutto venuta meno. Il declino delle aziende già pubbliche e poi malamente privatizzate – con un ruolo significativo, in entrambi i casi, di Roberto Colaninno – ha avuto quanto meno il merito di mostrare come in larga misura vi sia una convergenza tra il socialismo di destra e quello di sinistra. E così non sorprende che un ex-missino come Altero Matteoli si trovi a concordare con quello che da anni è il più accanito difensore del nazionalismo economico, Massimo Mucchetti, che dopo avere pesato significativamente nel dibattito pubblico grazie al Corriere della Sera – un tempo il quotidiano della borghesia lombarda illuminata, come ha ricordato qui Marco Bassani– ora si trova a essere parlamentare di punta del Partito democratico. A questo punto, dinanzi a tanta retorica patriottarda e una simile esibizione di retorica tricolore, viene quasi da rimpiangere i marxisti della nostra gioventù, che almeno una cosa l’avevano capita: e cioè che i capitalisti – come i proletari – non hanno patria. E non a caso (e giustamente!) sono pronti a delocalizzare ogni volta che ciò è possibile ed economicamente vantaggioso.
Soprattutto, però, sono i consumatori a non essere interessati alla nazionalità degli azionisti. Cosa importa, infatti, a quanti devono volare o telefonare che il passaporto dei detentori di questa o quell’azienda sia italiano, francese o spagnolo? Quello che interessa, ma questo deve starci a cuore veramente, è che vi sia un sistema concorrenziale e aperto, in grado di permettere alle varie imprese di stare sul mercato solo se soddisfano le esigenze dei consumatori. Solo in tal modo avremo buoni servizi e a prezzo contenuto. E qui, ahinoi, casca l’asino. Per più di un motivo. Tutti questi “liberali all’amatriciana” di un centro-destra zeppo di socialisti e tutti questi moralizzatori di un centro-sinistra analogamente dirigista oggi si tracciano le vesti perché arrivano i capitali europei, ma non hanno mai detto nulla di fronte allo scandalo di aeroporti in mano pubblica che non seguono logiche di mercato e, al contrario, favoriscono questa o quella compagnia sulla base di valutazioni che, nei fatti, peggiorano la qualità dei servizi.
Stessa cosa per il sistema telefonico. In questo caso – ma analogo discorso si potrebbe fare per le ferrovie e altri servizi “in rete” – ci si sarebbe dovuti preoccupare di accompagnare l’uscita dal Moloch statale, la vecchia Sip, adottando strategie che mettessero sullo stesso piano le vecchie e le nuove compagnie. Invece non si è fatto nulla, o quasi. Salvo oggi accorgersi che gli oligarchi che detengono Telecom hanno goduto finora del beneficio del monopolio della rete fissa, senza che mai nessuno abbia pensato di accompagnare la transizione verso un modello più inglese e aperto allacompetizione. D’improvviso ora tutti i politici sentono l’urgenza di operare lo “scorporo”, ma solo perché – pur senza mettere un solo euro in queste aziende – in tal modo essi possono continuare a intralciare il mercato e far prevalere i loro interessi di clan. Quegli stessi interessi che li spingono a non mettere in vendita colossi come Rai, Enel, Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti, Eni e via dicendo. Soprattutto, ben poco sono interessi a portare sul mercato e ad allontanare dalla politiche le nostre banche, che a causa del sistema delle fondazioni restano ancora oggi all’interno del recinto della politica e dei suoi intrecci con il mondo degli affari. D’altra parte, le aziende pubbliche sono ilportafogli dei politici e il loro personale ufficio di collocamento. Non bastasse questo, la regolazione delle aziende private è l’altra maniera con la quale gli uomini di potere pretendono di dettar legge, intralciando lo sviluppo economico. Non deve sorprendere, allora, che una destra e una sinistra tanto simili tra loro in queste ore facciano a gara a parlare di nazionalizzazione e golden share, fingendo una competenza in politica industriale che non hanno, ma in verità preoccupandosi di non perdere il loro controllo sull’economia.
Per giunta, tra l’ipotesi di avere un grande impresa nelle mani di un capitalista straniero e uno italiano, è sempre meglio la prima soluzione. Per quale motivo? Perché fin in dai tempi di Adam Smith sappiamo che le relazioni personali tra politici e imprenditori uccidono la concorrenza e finiscono per rapinare contribuente e consumatore. La storia di questi due decenni diprivatizzazioni “a favore degli amici” è quanto mai emblematica. Più gli imprenditori sono estranei alle logiche relazionali della nostra politica e meglio è. In questo quadro, dovremmo sperare che le imprese italiane finiscano nelle mani di bravi capitalisti che non parlano altra lingua che lo swahili. Già ai tempi della privatizzazione dell’Alfa Romeo (nel 1986), il più lucido e intelligente economista liberale del nostro tempo – Sergio Ricossa – sostenne l’opportunità che l’azienda fosse ceduta non già alla Fiat, ma alla Ford. Da torinese, conosceva bene l’azienda di corso Marconi. Oggi sappiamo quanto avesse ragione, anche se gli statalisti di destra e sinistra fingono di non conoscere quella lezione perché sono interesati unicamente a difendere il dominio che esercitano su di noi.