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Lezioni dalla Grande Depressione?

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Lezioni dalla Grande Depressione?

Messaggioda franz il 01/05/2013, 9:33

28 aprile 2013 • giovanni federico
Recensione di Trade policy disaster. Lessons from the 1930s, Irwin Douglas MIT Press 2012

Negli ultimi anni molti hanno paragonato la crisi attuale con la Grande Depressione del 1929. In molti casi si tratta di esercizi dilettanteschi, ma ci sono anche lavori seri.

Tutti hanno sentito parlare della Grande Depressione degli anni Trenta, e molti pensano che la crisi attuale sia simile. Dal punto di vista storico il paragone non regge – innanzitutto per la gravità della recessione. Il PIL totale mondiale è diminuito del 2% nel momento peggiore della crisi (inizi del 2009) ed è aumentato negli ultimi tre anni. Anche in un paese disastrato come l’Italia il calo del PIL è dell’ordine del 5-6%. Dal 1929 al 1933 il PIL dei paesi avanzati è diminuito del 15% e quello americano quasi del 30%.

Il paragone non regge anche per le caratteristiche della crisi e per la politiche adottate. Sarebbe troppo lungo elencare tutte le differenze, ma una salta agli occhi. Negli anni Trenta, i governi hanno reagito alla crisi aumentando moltissimo le barriere al commercio ed al movimento dei capitali e questo ha aggravato molto la recessione- Nella crisi attuale, commercio e movimenti dei capitali sono rimasti sostanzialmente liberi. Questo libro di Irwin, un economista americano molto noto agli addetti ai lavori per i suoi studi storici sul commercio estero ed il protezionismo, si propone di spiegare la differenza. La sua tesi può essere riassunta in una frase. Negli anni Trenta, i governi usarono i dazi ed i controlli ai movimenti di capitale per difendere il tasso di cambio fissato prima della crisi, mentre dal 2009 in poi non si è posto questo problema perché i tassi di cambio erano già flessibili.

La tesi di Irwin non è ovviamente del tutto nuova, anche se è espressa con grande chiarezza e in un linguaggio accessibile a non specialisti di storia ed economia monetaria (il libro è frutto di una serie di conferenze all’Università di Stoccolma nel 2010). Si inserisce infatti in un filone di interpretazione delle cause della Grande Depressione che risale a Keynes e che passa per i famosi (fra gli specialisti) libri di Temin ed Eichengreen. Irwin però riesce a collegare in maniera più sistematica dei suoi predecessori le decisioni sui cambi e sulla politica doganale inquadrandole in uno schema concettuale noto come il trilemma.

In un’economia di mercato, i policy-makers si possono porre tre obiettivi – libertà di movimenti di capitali e merci, mantenimento dei cambi fissi o gestione del ciclo economico per evitare le depressioni - ma possono raggiungerne al massimo due. Il sistema deve avere infatti un grado di libertà. E’ come una pentola a pressione con tre valvole per far uscire il vapore: due possono essere chiuse, ma una deve rimanere aperta altrimenti scoppia tutto. Quindi, si possono lasciare liberi i movimenti di capitale a cambi fissi rinunciando a gestire il ciclo economico, o si possono lasciare liberi i movimenti di capitale e adottare politiche anticicliche in regime di cambi flessibili o infine si possono mantenere cambi fissi e gestire il ciclo economico impedendo la libera circolazione di capitali e merci. La prima combinazione fu adottata durante il periodo classico del gold standard, 1870-1914: il cambio fra valute era fissato per sempre dalla rispettiva parità aurea ed i movimenti di capitali erano perfettamente liberi ma i governi non si preoccupavano del ciclo economico. La seconda combinazione (politiche anticicliche e libertà dei movimenti di capitali ma cambi flessibili) corrisponde alla situazione attuale e la terza (cambi fissi e politiche anticicliche ma controlli ai movimenti di capitale) al sistema di Bretton Woods, in vigore dagli anni Cinquanta al 1973.

Irwin utilizza tale schema per interpretare la reazione dei vari paesi alla crisi. Nel corso degli anni Venti, era stata ripristinata la libertà di movimento di capitali ed era stato faticosamente ricostruito, dopo lo shock della guerra, un sistema di cambi fissi abbastanza simile al gold standard classico. L’economia mondiale cresceva e quindi non c’era bisogno di politiche anticicliche. La situazione sembrava quindi stabilizzata, anche rimanevano gravi squilibri nella bilancia dei pagamenti di alcuni grandi paesi. La Germania in teoria avrebbe dovuto avere un surplus della bilancia dei pagamenti (avrebbe dovuto esportare più di quanto importasse) per pagare le riparazioni stabilite dal trattato di Versailles. Non ci riusciva e importava capitali dagli USA. Anche la Gran Bretagna doveva importare capitali, perché nel 1925 aveva stabilito un tasso di cambio troppo alto della sterlina che danneggiava le sue esportazioni. Invece Francia e Stati Uniti avevano un surplus, che in parte prestavano ed in parte convertivano in riserve auree. Allo scoppio della crisi americana, i flussi di capitale si inaridirono e divenne sempre più difficile finanziare i deficit della bilancia dei pagamenti. I paesi in disavanzo avevano due metodi per ridurli –abbandonare il cambio fisso e puntare sul riequilibrio attraverso la svalutazione o ridurre le importazioni controllando i movimenti di capitale. La Gran Bretagna scelse la prima soluzione, abbandonando per sempre la parità aurea della sterlina nel 1931. La Germania invece optò per il mantenimento del cambio fisso e lo difese con dazi, controlli ai movimenti di capitale ed accordi commerciali basati sul baratto (l’Italia fece lo stesso anche se Irwin non la cita). Francia e Stati Uniti avevano imponenti riserve auree ed avrebbero potuto aiutare espandendo la propria domanda, ma non lo fecero. Solo in un secondo momento, quando ormai la crisi era divenuta mondiale si trovarono in difficoltà e reagirono in maniera diversa. Gli Stati Uniti prima difesero il tasso di cambio mantenendo tassi di interesse reale positivi e poi svalutarono anch’essi, nel 1933. La Francia difese le proprie riserve auree con le unghie e coi denti aumentando i dazi e limitando i flussi di capitale e cedette solo nel 1936. In sostanza, secondo Irwin, tutti i paesi tentarono di adottare politiche di stimolo dell’economia, sacrificando o il cambio fisso o la libertà dei movimenti di beni e capitale. Le due politiche erano quindi alternative, ma la prima era quella giusta. Infatti le restrizioni al commercio aggravarono la crisi: secondo Irwin, esse spiegano circa il 40% del calo del commercio mondiale dal 1929 al 1933, determinando un calo di circa un punto del PIL mondiale.

Quali lezioni si possono trarre per il presente? Irwin fa notare che, grazie al sistema di cambi flessibili, i problemi di bilancia dei pagamenti sono molto meno gravi che negli anni Trenta. Questo ha eliminato uno dei principali argomenti per imporre dazi o limiti ai flussi di capitale. A sua volta la libertà di commercio e di movimenti di capitale hanno favorito la ripresa economica.

http://noisefromamerika.org/recensione/ ... epressione
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Re: Lezioni dalla Grande Depressione?

Messaggioda flaviomob il 23/05/2013, 10:34

http://keynesblog.com/2013/05/23/auster ... nnunciato/

Austerità, un fallimento annunciato

Pubblicato da keynesblog il 23 maggio 2013 in Economia, Europa

Senza peli sulla lingua, come è suo costume, Lord Skidelsky riassume i grossolani errori degli economisti pro-austerity, tra cui Alberto Alesina, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. I governi dovrebbero stare alla larga da certi consiglieri.

di Robert Skidelsky

La dottrina consistente nell’imporre sofferenze oggi in cambio di benefici nel futuro ha una lunga storia, fino ad arrivare ad Adam Smith con la sua lode alla “parsimonia”. E la si sente di più proprio quando i tempi diventano duri. Nel 1930, il presidente americano Herbert Hoover fu così consigliato dal suo segretario al Tesoro, Andrew Mellon: “Liquidate lavoro, liquidate le scorte, liquidate i contadini, liquidate gli immobili. Farà spurgare quanto c’è di marcio nel sistema … la gente … vivrà con più moralità e le persone intraprendenti raccoglieranno i cocci prodotti da quelle meno competenti.”
L’economia precedente il 2008 ha strabordato di “liquidazionisti” del genere di Mellon, come un cancro, nel settore bancario, in quello immobiliare e mobiliare, che deve essere asportato affinché ritorni lo stato di salute. La loro posizione è chiara: lo Stato è un parassita, che succhia la linfa vitale della libera impresa. Le economie gravitano naturalmente verso un equilibrio di piena occupazione, e, dopo uno shock, lo fanno abbastanza rapidamente se non ostacolate da un’azione di governo sbagliata. Questo è il motivo per cui sono fieri oppositori dell’interventismo keynesiano.

L’eresia keynesiana consisteva nel negare che ci fossero simili forze naturali, almeno nel breve periodo. Questo era al centro della celeberrima osservazione che “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Keynes riteneva che le economie potessero fissarsi in prolungati periodi di “equilibrio di sotto-occupazione” ; in casi del genere è necessario uno stimolo esterno di un qualche tipo per riportarli ad un più alto livello di occupazione.
In poche parole Keynes credeva che non si può tutti comprimere il processo di crescita allo stesso tempo. Credere altrimenti significa commettere la “fallacia di composizione”. Ciò che vale per le parti non è vero per il tutto. Se tutta l’Europa fa taglia, il Regno Unito non può crescere; se il tutto il mondo taglia, la crescita mondiale si fermerà.
In queste circostanze, l’austerità è esattamente l’opposto di ciò che è necessario. Un governo non può liquidare il suo deficit se la fonte delle sue entrate, il reddito nazionale, è in diminuzione. E’ la riduzione del deficit, non il debito, ad essere controproducente, perché implica lo spreco del capitale umano e fisico disponibile, a parte la miseria che ne scaturisce.
I sostenitori dell’austerità si basano su uno ed un solo argomento: se la contrazione fiscale è parte di un credibile programma di “consolidamento” volto a ridurre in modo permanente la quota dello Stato nel Pil, le aspettative delle imprese saranno così incoraggiate dalla prospettiva di tasse più basse e profitti più elevati, che la conseguente espansione economica sarà più che compensata dalla contrazione della domanda causata da tagli alla spesa pubblica. L’economista Paul Krugman chiama la “fata fiducia”.
L’argomento pro-austerità è semplicemente un’affermazione da sottoporre a verifica, e così gli econometrici si sono impegnati nel cercare di dimostrare che quanto meno il governo spende, tanto più velocemente l’economia cresce. In effetti, solo un anno o due anni fa, la “contrazione fiscale espansiva” era di gran moda, ed è stato speso un massiccio sforzo di ricerca per provarne l’esistenza.
Gli economisti sono arrivati ​​ad alcune correlazioni sorprendenti. Ad esempio, “un aumento della dimensione pubblica di dieci punti percentuali è associato ad un tasso di crescita annuo inferiore 0,5-1%.” Nel mese di aprile 2010, il capo di questa scuola, Alberto Alesina dell’Università di Harvard, ha assicurato i ministri delle finanze europei che “anche le forti riduzioni dei disavanzi di bilancio sono state accompagnate e immediatamente seguite da una crescita sostenuta, piuttosto che da recessioni, anche nel brevissimo periodo”.
Ma due errori hanno inficiato le “prove” offerte da Alesina e altri. In primo luogo, poiché i tagli dovevano essere “credibili” – vale a dire grandi e significativi, – la continua assenza di crescita potrebbe essere attribuita all’insufficienza dei tagli. Così, l’incapacità dell’Europa di recuperare “nell’immediato” è stata a causa di una mancanza di austerità, anche se il ridimensionamento del settore pubblico è stato senza precedenti.
In secondo luogo, i ricercatori hanno commesso il grossolano errore statistico di confondere la correlazione con la causalità. Se si trova una correlazione tra la riduzione del disavanzo e la crescita, la riduzione potrebbe essere la causa della crescita o viceversa. (O entrambi la riduzione del disavanzo e la crescita potrebbero essere dovuti a qualcos’altro – svalutazione o maggiori esportazioni, per esempio.)
Un articolo del 2012 del Fondo Monetario Internazionale ha messo fine all’ora di gloria di Alesina. Utilizzando lo stesso materiale di Alesina, i suoi autori hanno sottolineato che “mentre è plausibile ipotizzare che gli effetti legati alla fiducia siano stati in gioco nel campione statistico dei consolidamenti, durante le recessioni non sembrano essere stati mai abbastanza forti da rendere espansivi i consolidamenti “. La contrazione fiscale è restrittiva, punto.
Un esempio ancora più spettacolare di errore statistico e gioco di prestigio è l’affermazione ampiamente citata degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff che la crescita dei paesi rallenta bruscamente se il rapporto debito/PIL supera il 90%. Questo risultato riflette la massiccia sovraesposizione di un paese nel loro campione, e c’è la stessa confusione tra correlazione e causalità vista nel lavoro di Alesina: livelli di debito elevati possono causare una mancanza di crescita, o una mancanza di crescita può causare elevati livelli di debito.
L’austerità è basata su queste fondamenta di economia zombie e di ricerche raffazzonate. Infatti i propugnatori dell’austerità nel Regno Unito e in Europa spesso citano i risultati di Alesina e di Reinhart&Rogoff.
I risultati dell’austerità sono stati quelli che ogni keynesiano si sarebbe aspettato: quasi nessuna crescita nel Regno Unito e nella zona euro negli ultimi due anni e mezzo, ed un enorme declino in alcuni paesi; una piccola riduzione dei disavanzi pubblici, nonostante i grandi tagli di spesa; maggiori debiti nazionali.
Altre due conseguenze dell’ austerità sono state meno apprezzate. In primo luogo, la disoccupazione prolungata non distrugge solo la produzione attuale, ma anche quella potenziale, erodendo il “capitale umano” dei disoccupati. In secondo luogo, le politiche di austerità hanno colpito i soggetti collocati in fondo nella scala della distribuzione del reddito molto più severamente di quelli in alto, semplicemente perché quelli in alto fruiscono molto meno dei servizi pubblici.
Rimarremo pertanto in uno stato di “equilibrio di sotto-occupazione” fino a quando la politica nel Regno Unito e della zona euro non cambierà (e supponendo che la politica degli Stati Uniti non diventi peggiore). A fronte dell’incitazione proveniente da destra a tagliare ancora più selvaggiamente, gli uomini di stato troppo timidi nell’aumentare la spesa pubblica farebbero una cosa saggia ignorando questi consigli.

Fonte: Project Syndicate


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