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              Martedì 4 febbraio 2003, ore 19.00  
              Auditorium Parco della Musica / Sala 700 Viale Pietro de Coubertin, 
              30 [Roma]  
            LE RIFORME ISTITUZIONALI 
             
             Incontro con Giovanni Sartori 
              organizzato da Giustizia e Società  
               
              Le Riforme Sbagliate -Il testo integrale del discorso 
              tenuto da Giovanni Sartori  
               
              Le istituzioni sono la nostra casa politica, il luogo e il modo 
              (a seconda di come è fatta la casa) dove viene gestito il 
              potere. 
              Se le vogliamo cambiare il sottinteso dovrebbe essere che la casa 
              del potere funziona male; ma i motivi per cambiarla possono essere 
              diversi. In Italia, per alcuni dobbiamo completare la transizione 
              ad una Seconda Repubblica compiutamente bipolare; per altri la dobbiamo 
              cambiare semplicemente perché abbiamo bisogno di un sistema 
              politico efficiente.  
              In ogni caso, questa volta la pulsione riformistica è forte. 
              Anche perché questa volta proviene da Berlusconi, e quindi 
              da una maggioranza che può imporre le riforme istituzionali 
              da sola. 
               
              Comincio dall'inquadrare l'argomento. I sistemi politici delle democrazie 
              liberali sono fondamentalmente di due tipi: o presidenziali o parlamentari. 
               
              I primi sono caratterizzati dall'elezione popolare del capo dello 
              Stato, e da una netta separazione dei poteri tra esecutivo e legislativo. 
              Invece nei sistemi parlamentari il popolo elegge soltanto una assemblea 
              legislativa, e il potere tra esecutivo e legislativo è diviso 
              ma anche condiviso. 
               
              Il rischio del presidenzialismo è che il legislativo paralizzi 
              l'esecutivo; il rischio del sistema parlamentare è l'assemblearismo, 
              e cioè il malgoverno (sul governo) dell'assemblea. Questi 
              due inconvenienti sono stati fronteggiati da due rimedi: da un lato 
              da un presidenzialismo parlamentarizzato (il semi-presidenzialismo 
              di tipo francese), e dall'altro dal premierato di tipo inglese (del 
              quale il cancellierato tedesco costituisce una variante). 
               
              Dunque se cerchiamo buoni modelli per buone istituzioni è 
              bene ispirarsi al semi-presidenzialismo (se siamo di inclinazione 
              "direttistica", fautori di elezioni dirette), oppure al 
              premierato-cancellierato (se ci piace restare nell'ambito dei sistemi 
              parlamentari). E' vero che di riforme istituzionali in Italia si 
              parla da parecchi decenni. Ma in passato il problema non era inquadrato 
              in questi termini. Oggi lo è, e tanto meglio così. 
               
               
              Sennonché noi dobbiamo sempre fare i conti con un genio italico 
              cha sa sempre far meglio di tutti gli altri; un genio al coperto 
              nel quale sguazzano poi legioni di furbastri specializzati in confusioni 
              e brodaglie. Beninteso nulla vieta di migliorare un modello; ma 
              rispettandone la logica, rispettandone la coerenza. I sistemi politici 
              sono, appunto, sistemi: il che significa insiemi le cui parti devono 
              essere congruenti, devono davvero stare insieme. Invece il "genio 
              italico" predilige il bricolage, l'arlecchinismo costituzionale, 
              e approda così alla invenzione di bastardi senza capo né 
              coda, oppure con il capo al posto della coda. 
               
              Tornando agli originali, ai modelli come sono prima dell'intervento 
              del genio italico, è chiaro che sono tutti e due, o tutti 
              e tre, modelli accettabili. Ma accettabili in astratto. In concreto 
              dobbiamo tenere conto del "fattore B", del fattore Berlusconi. 
              In passato Alberto Ronchey coniò, nel 1979, la dizione "fattore 
              K" per dire il fattore Komunismo. Il fattore K spiegava l'anomalia 
              italiana degli anni 50-90, e cioè l'anomalia del sistema 
              bloccato, senza alternanza, salvato al centro della diga Dc. Il 
              fattore K di Ronchey si dissolve con la caduta del muro di Berlino 
              del 1989; ma noi siamo lestamente tornati ad essere anomali (e fuori 
              regola) perché lo abbiamo sostituito con il "fattore 
              B". Come autorevolmente scrive l'Economist del 1° febbraio, 
              la democrazia "non è stata normale, in Italia, da parecchio 
              tempo, e ultimamente si sta attorcigliando in una ancora maggiore 
              anormalità".  
               
              Come dicevo, il fattore B sconsiglia, oggi, il semi-presidenzialismo. 
              La formula francese è temperata da una sua possibile e prevista 
              alternanza interna tra un presidente forte che governa disponendo 
              di una sua maggioranza in parlamento, e un presidente debole, in 
              minoranza, bloccato dalla cosiddetta coabitazione. In Italia Berlusconi 
              dispone già, di fatto, di un potere smisurato, fuori misura, 
              che non trova analoghi né precedenti in nessuna democrazia. 
              Il che significa che con lui rischiamo un presidenzialismo davvero 
              dispotico. In dottrina io ho sempre sostenuto il semi-presidenzialismo 
              (mai il presidenzialismo puro all'americana). Ma al cospetto del 
              fattore B non mi sento, oggi, di raccomandare il modello della V 
              Repubblica. 
               
              Restano, allora, i premierati: sia il premierato inglese come il 
              cancellierato tedesco. In entrambi i casi otteniamo un rafforzamento 
              del potere esecutivo, e quindi una buona o comunque maggiore governabilità. 
              Il guaio è, qui, che il premierato inglese funziona come 
              funziona perché nel Regno Unito i partiti sono soltanto due 
              ( il sistema è bipartitico) e il governo è monopartitico 
              (senza coalizioni). Noi, invece, di partiti ne abbiamo dodici (uno 
              più, uno meno), e cioè dieci di troppo. Cosa ne facciamo? 
              La domanda è pressoché sacrilega, disturba gli interessi 
              costituiti e troppe omertà, troppe connivenze. Pertanto la 
              risposta dei nostri esperti (si fa per dire) è che se uno 
              diventa otto (caso della sinistra), si fa una coalizione di otto; 
              e se diventa quattro (caso della destra), allora si fa una coalizione 
              di quattro. E' la stessa cosa? Assolutamente no: è una cosa 
              diversissima. Semmai, a questo effetto il modello che ci può 
              aiutare è il cancellierato tedesco, visto che questo modello 
              contempla la possibilità di coalizioni di governo. Mentre 
              in Canada (modello inglese) si preferisce un governo di minoranza 
              a un governo di coalizione, in Germania i governi di coalizione 
              a due sono normali, e anche una coalizione a tre sarebbe concepibile. 
              Ma, attenzione, è così perché il sistema elettorale 
              tedesco mantiene bassa la frammentazione partitica, e perché 
              la buona sorte ha prodotto un sistema partitico del tipo 2 più 
              2, e cioè con due partiti maggiori (con il 30-40 per cento 
              dei voti), più due partiti minori, i liberali e i verdi (con 
              il 5-10 per cento dei voti). Dunque in Germania va da sé 
              - grazie ad un quadripartitismo diseguale - che il cancelliere sia 
              espresso da uno dei due partiti maggiori, e che si diano coalizioni 
              senza troppi problemi perché dominate o dai democristiani 
              o dai socialdemocratici. E la espressione "va da sé" 
              sta per dire che qui si applicano le normali regole dei sistemi 
              parlamentari. 
               
              Da queste considerazioni si dovrebbe ricavare che a noi conviene 
              far capo al modello del cancellierato tedesco. Ma non è così. 
              Il cancellierato non è senza fautori, ma per ora la loro 
              voce è minoritaria. L'ostacolo è qui il sistema elettorale. 
              La Germania adopera un sistema misto che però è interamente 
              proporzionale in esito, e cioè nella distribuzione dei seggi; 
              un proporzionalismo che è frenato, peraltro, da una soglia 
              di sbarramento del 5 per cento. E questo sbarramento non può 
              essere aggirato (come accade in Italia) da alleanze elettorali. 
              Il che terrorizza i nostri partitini. S'intende che la loro opposizione 
              sarebbe superabile (sono, dopotutto, partitini molti "ini"). 
              Se non lo è, è perché da noi trionfa una vera 
              e propria fissazione maggioritaria che ci viene da lontano, da Pannella 
              e da Mariotto Segni. Una fissazione che si traduce nella tesi che 
              sistema elettorale maggioritario e bipolarismo stanno e cadono assieme. 
              Più esattamente, la tesi è che senza il primo viene 
              meno il secondo. E' proprio così? Secondo me no. 
               
              La controprova è che la Germania e la Spagna sono insieme 
              paesi proporzionalisti e bipolari. E così tutti i piccoli 
              paesi Europei. Il maggioritario "secco" serve in Inghilterra 
              a mantenere un sistema a due partiti. Ma se noi ci accontentiamo, 
              come ci accontentiamo, di un sistema bipolare nel quale ciascun 
              polo aggrega partiti in quantità, allora è di tutta 
              evidenza - lo dimostra, appunto, l'evidenza - che il bipolarismo 
              non richiede un sistema elettorale maggioritario. Perché? 
              Come si spiega? La mia spiegazione è che una struttura competitiva 
              binaria, o bipolare, diventa fisiologica, diventa normale, man mano 
              che la polarizzazione ideologica si riduce (e quindi con qualsiasi 
              sistema elettorale). Dunque, che il bipolarismo non presupponga 
              elezioni di tipo maggioritario è comprovato dai fatti e anche 
              spiegato, o comunque spiegabile, in teoria. Eppure da questo orecchio 
              nessuno ci sente. Come dicevo, il maggioritarismo è, in Italia, 
              una fissazione. Una fissazione, aggiungo, i cui effetti nefasti, 
              o comunque negativi, non investono soltanto l'ingiustificato rifiuto 
              del sistema elettorale tedesco (che potrebbe andare benissimo, se 
              mantenuto esattamente come è, anche per noi) ma anche, e 
              ancor più, la assurda difesa del pessimo sistema elettorale 
              che abbiamo, del cosiddetto Mattarellum. E questo è un punto 
              che merita una digressione. Dico digressione perché il sistema 
              elettorale è, da noi, materia di legge ordinaria, non di 
              legge costituzionale (anche se alcuni progetti di riforma istituzionale 
              ne contemplano la costituzionalizzazione). Costituzionalizzazione 
              o no, il punto è che in ogni caso qualsiasi sistema di governo 
              richiede, per funzionare, un buon sistema partitico che presuppone 
              a sua volta un buon sistema elettorale. Buono in che senso? Buono 
              che cosa vuol dire? Qui vuol dire che i partiti non dovrebbero essere 
              più di cinque-sei, e che il sistema elettorale ne deve ostacolare 
              la frammentazione. Invece noi di partiti ne abbiamo una dozzina; 
              il che basta a dimostrare che noi abbiamo un cattivo sistema elettorale. 
              Che è doppiamente cattivo. In primo luogo perché produce 
              una frammentazione eccessiva e disfunzionale del sistema partitico; 
              e in secondo luogo perché funziona sulla base di incentivi 
              perversi. 
               
              La fissazione maggioritaria di cui dicevo prima ci induce a sostenere 
              che la colpa dei "troppi partiti" è della componente 
              proporzionale (un quarto) del Mattarellum, e quindi che tutto andrebbe 
              a posto se eliminiamo il "misto"e adottiamo un sistema 
              interamente maggioritario a un turno. E' tutto sbagliato, è 
              vero il rovescio. La moltiplicazione dei nostri partiti è 
              dovuta al fatto che il sistema uninominale - il sistema nel quale 
              in ogni collegio il "vincitore piglia tutto", the winner 
              takes all - attribuisce ai partitini un formidabile potere di ricatto. 
              Il partitino non può mai vincere una gara uninominale; ma 
              se si presenta può far perdere il seggio al partito maggiore 
              del suo schieramento. E così le elezioni diventano un grande 
              mercato delle vacche nel quale i partiti maggiori devono comprare 
              le "desistenze" dei partitini assegnando loro una serie 
              di seggi concordati al tavolino. Davvero un bel sistema degno di 
              essere difeso (come avviene) ad oltranza. 
               
              Riprendo il filo venendo ai progetti di riforma in campo. Il centro-destra 
              non ha ancora esibito un suo testo comune. Si sa che Berlusconi 
              preferisce il semi-presidenzialismo, ma risulta che sia disposto 
              a negoziare. Fini dice ora di preferire il premierato, mentre Casini, 
              il grosso degli ex-Dc, e anche il forzista Urbani puntano sul cancellierato. 
              E si sa anche che il centro-destra sta elaborando la sua proposta 
              in una sua "Officina", cioè nel suo gruppo di cervelli. 
              Ma questo è tutto. La sinistra ha invece già depositato 
              al Senato due progetti. Il primo in ordine di tempo è il 
              disegno di legge del senatore Tonini (primo firmatario) e sei altri. 
              E' però di evidente derivazione dalemiana, nel senso che 
              proviene dal suo pensatoio, dalla sua Fondazione. Il secondo è 
              il disegno di legge del senatore Bassanini (primo firmatario), più 
              ventotto altri, e sottoscritto in particolare da tutti i componenti 
              dell'Ulivo della Commissione affari costituzionali (tra i quali 
              Mancino, Salvi, Dentamaro, Villone, Manzella, Passigli, Toia, Occhetto) 
              e anche da Giuliano Amato. 
               
              I due progetti vertono entrambi sulla formula del premierato. Ma 
              divergono recisamente in quasi tutto, e soprattutto su due punti 
              cruciali: l'elezione diretta del capo del governo e, secondo, l'attribuzione 
              al premier della facoltà di sciogliere la Camera dei Deputati. 
              Sul primo punto il testo Tonini dice così: "l'elettore 
              dispone di un unico voto su un'unica scheda per l'elezione del candidato 
              nel collegio uninominale 
 e, a destra, l'eventuale nome del 
              candidato alla carica di Primo ministro a cui il candidato del collegio 
              può essere collegato". E', questo, l'equivalente di 
              una elezione diretta? A mio parere si. Tantovero che il primo ministro 
              così designato non chiede la fiducia del parlamento: il capo 
              della Stato è obbligato a nominarlo e basta (nuovo testo 
              dell'articolo 92 della Costituzione). Qui la difficoltà dei 
              dalemiani è che questo non è il premierato all'inglese 
              (visto che in Inghilterra il nome del Primo ministro in pectore 
              non è scritto su nessuna scheda di voto), ma invece l'equivalente 
              dello screditato e già ripudiato premierato israeliano. 
               
              I dalemiani sostengono che non è così, che ci sono 
              differenze. Si, ma in peggio. In Israele il voto per il premier 
              veniva dato su una scheda a parte: il che dà libertà 
              di scelta. A noi viene invece proposta una scelta senza libertà 
              di scelta. Chi è di sinistra dovrà votare il candidato 
              il cui nome è già stampato sulla scheda; e l'elettore 
              di destra al quale magari piace Casini, oppure Fini, dovrà 
              per forza votare Berlusconi. 
              I dalemiani si difendono anche sulla base di un'altra differenza, 
              questa: che il loro premier, se sfiduciato dal parlamento, "presenta 
              al presidente della Repubblica le dimissioni ovvero la richiesta 
              di elezioni anticipate" (nuovo testo dell'art. 49 della Costituzione). 
              Ma questo disposto è, ad un tempo, ipocrita e incongruente. 
              Se un premier ha in tasca il potere di sciogliere il parlamento, 
              perché mai si dovrebbe dimettere? Nel 1994, Berlusconi non 
              si sarebbe certo dimesso; e nemmeno lo avrebbe fatto, quando cadde, 
              Prodi. Tanto più che il testo Tonini dispone che il primo 
              ministro che "si sia dimesso non può assumere alcun 
              incarico di governo per la legislatura 
 immediatamente successiva". 
              E' come intimare: devi sempre sciogliere, perché se ti dimetti 
              sei davvero un fesso. Notavo anche che il nuovo articolo 94 è, 
              sarebbe, incongruente. Se il premier è prodotto da una elezione 
              diretta, come si fa ad avere un secondo premier che non lo è? 
              Qui vale, per estensione, il principio che il delegato non può 
              delegare. Un Berlusconi che si dimette non può passare la 
              sua elezione diretta a un altro. Un altro - si ricordi - che non 
              è stato eletto alla carica, ma che fruirebbe del privilegio 
              di non dover chiedere la fiducia al parlamento. Proprio non ci siamo: 
              il gruppo è debole in diritto. E il mio sospetto è 
              che il pensatoio dalemiano vorrebbe il premierato israeliano ma 
              che, non potendo riproporre un esperimento fallito e un modello 
              senza casi (Israele era un caso unico), cerchi di rivenderlo agli 
              italiani travestito all'inglese. 
               
              L'altro punto è, ricordo, il potere di sciogliere il parlamento. 
              Sul punto la proposta di Tonini dice così: "Se richiesto 
              dal primo ministro il presidente della Repubblica, sentito il presidente 
              della Camera 
 indice elezioni per la Camera dei Deputati, 
              anche anticipate" (nuovo testo dell'articolo 88 della Costituzione). 
              Per fortuna al premier non viene consentito di indire elezioni posticipate 
              (che so, di rinviarle di cinque anni); ma a parte questo divieto, 
              il potere in questione è senza dubbio un potere discrezionale. 
              "Sentire" il presidente della Camera è un sentire 
              da nulla, tanto più che il progetto Tonini prevede, con un 
              tortuosissimo meccanismo elettorale, che il premier "unto dal 
              popolo" fruisca in ogni caso di una maggioranza del 55 per 
              cento. E dunque, qui, si configura senza ombra di dubbio un trasferimento 
              di potere dal capo dello Stato al capo del governo. Al che si può 
              e si deve obiettare che così si crea un grave squilibrio: 
              il secondo acquista troppo potere, al primo ne resta troppo poco. 
               
              A questa prima obiezione se ne possono aggiungere altre. La seconda 
              obiezione è che, in linea di principio, il troppo votare 
              è nocivo alla democrazia. Sotto elezioni i governi entrano 
              in febbre elettorale, rinviano tutte le decisioni impopolari (anche 
              se necessarie e urgenti), e si danno alla spesa facile. Insomma, 
              il momento felice del "buon governo" è il momento 
              nel quale le elezioni sono lontane. A questa considerazione si oppone 
              che quel che serve è la minaccia di scioglimento, non lo 
              scioglimento. Vero. Ma poi succede che quando lo scioglimento è 
              reso facile e non viene deciso da un "potere neutro", 
              finisce che diventa frequente o comunque finisce per essere un deterrente 
              abusato. Un governo inguaiato che non sa più che pesci prendere, 
              cerca un diversivo nel rivotare. Il che sta forse già per 
              succedere. La terza obiezione, la più importante, è 
              che l'accoppiata di elezione diretta e di deterrenza elettorale 
              (nel senso appena precisato) ferisce al cuore il meccanismo che 
              costituisce la ragion d'essere e il pregio dei sistemi parlamentari. 
              Il loro pregio è di essere sistemi flessibili che si autoriparano, 
              che rimediano da sé ai loro incidenti di percorso. Invece, 
              il progetto Tonini prefigura un sistema rigido che non si autoripara: 
              o va avanti così come è nato, oppure si spacca e ricomincia 
              da zero. Già, si ricomincia da zero senza tener presente 
              che il più delle volte il rivotare non cambia nulla perché 
              quasi tutti rivotano allo stesso modo. 
               
              Infine, devo ricordare un ultimo difetto (tale per me, si intende) 
              del disegno di legge Tonini, questo: che costituzionalizza il sistema 
              elettorale e, peggio ancora, un pessimo sistema elettorale. Il pensatoio 
              dalemiano costruisce il suo edificio dando per scontato, e così 
              anche eternizzando, il sistema uninominale a un turno, il maggioritario 
              secco, che prima criticavo spiegando che è un sistema elettorale 
              fondato sul ricatto che disastra il nostro sistema partitico frammentandolo 
              oltre ogni ragionevole misura. Non so se il pensatoio dalemiano 
              sappia di queste critiche, o se sappia che esistono sistemi elettorali 
              semplici e bene collaudati che potrebbero facilmente curare le succitate 
              degenerazioni del maggioritarismo. Fatto sta che il progetto Tonini 
              esibisce una sovrastruttura di marchingegni che mi fanno pensare 
              a un sistema elettorale disegnato da Gaudì, il celebre architetto 
              della notissima chiesa di Barcellona. Di sistemi elettorali mi occupo 
              da parecchi decenni. Ma non mi sono mai imbattuto in un pateracchio 
              di tanta turgida bellezza. Passo all'altro progetto, al disegno 
              di legge Bassanini et al. Come già dicevo, è un progetto 
              pressoché contrario a quello di Tonini. Infatti rifiuta l'elezione 
              diretta, l'attribuzione al premier del potere di sciogliere il parlamento, 
              e anche la costituzionalizzazione del sistema elettorale. Beninteso, 
              anche il progetto Bassanini punta sul rafforzamento dell'esecutivo, 
              iscrivendosi così nell'ambito del premierato. Ma il testo 
              Bassanini non viola i principi del sistema parlamentare ed è 
              caratterizzato da una serie di proposte specifiche sulle quali esiste 
              già da tempo un largo consenso. Pertanto non avrei dubbi 
              su quale sia il progetto da preferire. Senonché nel dire 
              così - preferire - mi trovo inaspettatamente spiazzato da 
              Giuliano Amato. Il nostro "dottor sottile" è tra 
              i firmatari del disegno di legge Bassanini. Ma l'altro giorno ha 
              dichiarato di appoggiare anche il disegno di legge Tonini. Possibile? 
              Se non si trattasse di Amato, che è persona che profondamente 
              rispetto, griderei al doppio gioco, direi che non si può 
              sottoscrivere una cosa e il suo contrario. Amato ha spiegato che 
              sottoscrive entrambi i progetti perché "dobbiamo tutti 
              contribuire alla unità dell'Ulivo". Ma continuo a non 
              capire. La sintesi tra il diavolo e l'acqua santa non esiste. E 
              se dobbiamo tutti contribuire alla unità dell'Ulivo, allora 
              questa unità non può e non deve consistere nella invenzione 
              di un ennesimo pastrocchio. D'Alema e Amato hanno invece il diritto-dovere 
              di chiedere a Tonini di ritirare il suo progetto - che è 
              un pessimo progetto sostenuto da una piccola minoranza - e di sottoscrivere 
              anche lui, Tonini, il progetto Bassanini, che è un buon progetto 
              sostenuto da una larga e rappresentativa maggioranza di tutto l'Ulivo. 
               
               
              La sinistra è piena di personaggi che predicano l'unità 
              ma che poi, dopo aver predicato bene, razzolano male. Se l'Ulivo 
              combatterà la battaglia delle riforme istituzionali diviso, 
              e cioè con due progetti alternativi che non sono né 
              conciliabili né da conciliare (Amato mi consenta di insistere: 
              tra i progetti Tonini e Bassanini non c'è nulla da "connubiare"), 
              allora è sicuro che la perderà. Altrimenti non è 
              detto. Non è detto perché sulle riforme è il 
              centro-destra che si trova in grande difficoltà nel trovare 
              una piattaforma comune. Qualcuno di voi si chiederà, immagino, 
              perché quasi tutto il mio tempo sia stato investito nell'analisi 
              delle proposte della sinistra, e non anche della destra. E' semplicemente 
              perché le proposte del Polo vanno ancora in ordine sparso. 
              Sono, in sequenza di presentazione, i disegni di legge Eufemi (UDC) 
              che sposa il cancellierato; Malan (FI) che sposa l'elezione diretta 
              del premier e altre bellurie del progetto Tonini; e Nania (AN) che 
              si attesta sulla posizione di bandiera del suo partito, che è 
              il semi-presidenzialismo. Come si vede, qui si copre tutto l'arco 
              delle possibilità. Se l'Officina della destra si proverà 
              a rifonderle assieme, temo che ne uscirà un bel mostro. Certo 
              è che le avvisaglie non sono incoraggianti. Venerdì 
              scorso 30 gennaio a Todi, il presidente della Camera Casini si è 
              dichiarato in favore di uno scioglimento delle Camere deciso dal 
              premier "in concorso con il presidente della Repubblica", 
              e questo per rendere impossibili i "ribaltoni"; ribaltoni 
              che Casini considera "il cancro della democrazia". Ma, 
              in primo luogo, cosa vuol dire (in diritto) "concorso"? 
              In Francia il presidente della Repubblica "può, sentito 
              il primo ministro e i presidenti delle assemblee, sciogliere l'Assemblea 
              nazionale". Quel "sentire" è vincolante o 
              no? No, perché la costituzione francese precisa che l'atto 
              di scioglimento non richiede la controfirma del primo ministro (articolo 
              19). E in Italia?. Il nostro capo dello Stato si può rifiutare 
              di firmare? In secondo luogo, proprio non mi risulta che i ribaltoni 
              siano il cancro della democrazia. Sulla democrazia io ho letto - 
              per dovere di ufficio, di probità professionale - centinaia 
              di libri. Ebbene, nella letteratura internazionale che fa testo 
              non mi sono mai, proprio mai, imbattuto nella fattispecie del "ribaltone", 
              e tantomeno, quindi, nella teoria che i cambiamenti parlamentari 
              della maggioranza di governo minaccino in alcun modo la democrazia. 
              Dal che è giocoforza ricavare che i ribaltoni sono una ennesima 
              invenzione-fissazione italica. Il punto è questo: che la 
              nozione di ribaltone non si può applicare (la contraddizione 
              non lo consente) ai sistemi parlamentari governati dal principio 
              che "il parlamento è sovrano" (dopotutto vengono 
              detti parlamentari per questo). Si applica invece alla elezione 
              diretta del premier; e dunque a un sistema che in Israele non c'è 
              più, e che in Italia non c'è ancora (se mai ci sarà). 
              Pertanto se i ribaltoni non ci piacciono (non piacciono, in verità, 
              nemmeno a me) un parlamento è libero, liberissimo, di non 
              farli accadere. Il cancro della democrazia italiana è un 
              altro: è che ci siamo regalati un capo del governo in grado 
              di "imbottire i cervelli" - bourrer les cranes, in dizione 
              originale - e così di preconfezionare le opinioni e le elezioni. 
              Scusate se è poco.  
               
              Stavo dicendo che gli auspici di "buona riforma" che ci 
              vengono da destra non sono incoraggianti. Se poi il presidente della 
              Camera - che è bravo e giustamente stimato - sbaglia cancro, 
              allora resto ammutolito. E difatti qui chiudo, qui mi metto zitto. 
              Ho finito. 
             
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