Gentili ospiti, cari amici, care compagne
e cari compagni,
grazie per essere qui così tanti. E un segnale di attenzione
di cui vi ringrazio e che ci sprona ancor di più a onorare
al meglio le vostre aspettative.
Ringrazio il Presidente Casini che ci onora della sua presenza e
tutti i rappresentanti delle istituzioni, dei partiti e delle associazioni.
E ringrazio in particolare Romano Prodi, a cui riconfermo la nostra
affettuosa e solida amicizia e il sostegno pieno nella sfida che
insieme condurremo.
Desidero anchio inviare il nostro saluto più affettuoso
al Presidente Ciampi, la cui autorità morale e politica è
saldo riferimento quotidiano per tutti noi, rigoroso custode dei
principi costituzionali e dellautonomia delle istituzioni
della Repubblica in un Paese esposto troppo spesso a strappi istituzionali
e lacerazioni sociali.
Penso di interpretare i sentimenti di alta considerazione e di stima
di tutti voi indirizzando a Sua Santità Giovanni Paolo II,
anche da questo Congresso, gli auguri più sinceri di pronta
guarigione, affinché possa riprendere al più presto
la Sua missione in favore della pace, della giustizia, della fraternità
e del dialogo.
Apriamo questo nostro 3° Congresso dei Democratici di Sinistra
consapevoli delle intense aspettative con cui si guarda a noi.
L'Italia, si trova di fronte uno di quei passaggi storici che non
lasciano immutata la condizione di un paese. Se ne può uscire
più forti, o invece tremendamente indeboliti, drasticamente
ridimensionati.
Non si tratta di evocare fantasmi, ma di fare i conti in modo lucido
con il rischio di declassamento al quale il nostro Paese è
esposto.
Tutti gli indicatori crescita del Pil, esportazioni, investimenti,
innovazione, livello di formazione, natalità, tassi di attività,
occupazione femminile conoscono andamenti negativi o stagnanti
e, in ogni caso, più modesti delle dinamiche europee e mondiali.
E ormai da tempo l'Italia non accumula le risorse sufficienti al
suo sviluppo e alla redistribuzione sociale della ricchezza. Mentre
in questi tre anni leconomia mondiale è tornata a crescere.
L'Italia può tornare ad essere "espressione geografica",
un "paese senza qualità", un "mercato passivo",
trainato da chi ha altrove, in qualche altra parte dell'Europa o
del mondo, il centro e il cuore dei suoi interessi.
Oppure lItalia può tornare a essere grande, scommettendo
sulle sue straordinarie risorse, oggi deluse ed inutilizzate: i
giovani, troppo a lungo tenuti ai margini del mercato, del lavoro,
delle professioni, dell'università e delle ricerca, della
politica, da un sistema chiuso e oligarchico.
E poi il dinamismo competitivo delle imprese; il saper fare di milioni
di lavoratori; la vivacità della ricerca e delluniversità
che chiede di premiare il merito e di poter competere con le sedi
di eccellenza, in Europa e nel mondo.
E poi il Mezzogiorno, piattaforma naturale europea protesa verso
il Mediterraneo, un bacino che dopo cinque secoli di predominio
dell'Atlantico, oggi con lo straordinario sviluppo dell'Asia, sta
tornando crocevia dello sviluppo mondiale.
E ancora: gli italiani all'estero e gli stranieri in Italia, due
facce diverse, ma complementari di una medesima apertura del nostro
paese al mondo.
Sì lItalia è un grande Paese: ce
la può fare, può rialzarsi.
Il declino è un rischio, non un destino.
Ma per farcela ha bisogno di un progetto in cui credere e una classe
dirigente allaltezza del compito.
Per questo il nostro slogan è: Finisce lillusione.
Comincia lItalia.
Sì, finita levocazione dei sogni e dei miracoli a buon
mercato, il futuro è nelle nostre mani.
E noi abbiamo perciò il dovere di prospettare, qui ed ora,
il nostro progetto, sapendo che i tempi non sono lunghi.
Per questo il Congresso è così importante. Siamo la
forza più grande del centrosinistra e tocca a noi la responsabilità
di indicare una strada e di percorrerla con convinzione. E noi qui
vogliamo rendere chiara e visibile la nostra sfida riformista.
Daltra parte proprio lo stesso svolgimento di questo Congresso
dimostra quanto la nostra gente sia ben consapevole di questa responsabilità.
Oltre 7000 Congressi delle nostre strutture territoriali e aziendali,
a cui hanno preso parte 200.000 iscritti, con una percentuale di
partecipazione superiore a Pesaro, sono la testimonianza di una
passione politica, di una tensione ideale, di una volontà
di combattere di cui voglio rendere merito alle donne e agli uomini
di questo nostro Partito.
E desidero ringraziare tutte le compagne e i compagni che mi hanno
voluto confortare del loro consenso.
Così come ringrazio Fulvia Bandoli, Fabio Mussi e Cesare
Salvi e le compagne e i compagni che ne hanno condiviso le
tesi per il contributo appassionato che hanno voluto dare
al nostro dibattito congressuale.
I DS sono una straordinaria risorsa della democrazia italiana; un
patrimonio di intelligenza, passione, volontà che noi mettiamo
a disposizione dellItalia.
E da questo Congresso vogliamo parlare al Paese, per trasmettere
un messaggio di fiducia e di speranza.
***
Sono trascorsi oltre tre anni e mezzo dalla formazione del governo
Berlusconi e molte delle speranze suscitate nel 2001 ormai sono
sfumate.
Leconomia è ferma. Le esportazioni flettono. Manca
una politica industriale. Il Mezzogiorno è sparito dallagenda
politica.
La competitività del nostro sistema produttivo è in
affanno e il decreto sulle competitività, promesso per il
1° gennaio, si è perso nelle nebbie.
Le risorse per ricerca, scuola, università sono diminuite.
Alla legge obiettivo sulle infrastrutture non sono seguiti né
programmi, né finanziamenti adeguati.
I conti pubblici sono stati messi a rischio dallincapacità
di governare la spesa e da una politica fiscale fondata su condoni
dagli esiti perversi.
E Fondo Monetario e Unione Europea non esitano più a prevedere
lo sfondamento del 3% di deficit.
Milioni di famiglie guardano alla propria vita quotidiana con maggiore
insicurezza e preoccupazione, vuoi perché il reddito si è
fatto più stretto, vuoi perché il lavoro proprio e
dei figli si è fatto precario.
Peraltro come se tutto questo non bastasse, Governo e maggioranza
hanno inflitto al Paese lacerazioni politiche e istituzionali
la giustizia, linformazione, la devolution che hanno
indebolito la coesione sociale e la stessa identità nazionale.
Per non parlare di un declassamento europeo e internazionale, ben
rappresentato dal vertice di Tolosa dove Chirac, Blair, Schroeder,
Zapatero, si sono riuniti a discutere della nuova Europa. E lItalia
non cera.
Una inadeguatezza che il paese sente e che spinge molti a tirare
i remi in barca, a non innovare, a non investire, a non fare figli,
a rassegnarsi.
Non cè istituto di ricerca dal Censis a Eurispes
che non ci parli di un paese inquieto, insicuro, che vive
il presente nel timore di ciò che verrà dopo. Che
non sa più immaginare lavvenire con tonalità
diverse dal grigio.
Cè un solo italiano che continua a ripetere che le
cose vanno bene. Anzi, non potrebbero andare meglio.
Berlusconi ricorda quellaffascinante nobildonna francese,
che colta in flagrante amplesso, cercò inutilmente di protestare
la propria innocenza, urlando al suo uomo tradito: Ah benissimo,
vedo che non mi amate più: credete di più a quel che
vedete che a quel che vi dico!.
E così, dallesito fallimentare della sua politica,
il centro destra trae non già la conseguenza di un cambiamento
di rotta, ma al contrario di una ulteriore radicalizzazione dello
scontro politico.
Lo si vede con lannuncio di voler alterare la par condicio
e mettere mano alla legge elettorale soltanto per cercare di evitare
altre sconfitte.
Lo si è visto nelle esternazioni di Berlusconi che torna
a proporsi come langelo del bene contro il diavolo del male.
***
Insomma, un fallimento che indica come la natura della crisi italiana
sia essenzialmente "politica", perché è
crisi di progetto, di visione, di classe dirigente.
Quel che è fallito è il progetto con cui la destra
si proponeva di dare soluzione ad una transizione incompiuta.
Un disegno ambizioso, fondato su tre scelte, perseguite con determinazione,
ancorché il loro esito sia disastroso per il Paese.
Intanto la destra ha perseguito lobiettivo di una democrazia
post-parlamentare fondata sullo svuotamento delle prerogative
del Parlamento, la messa in mora delle autonomie istituzionali
dalla magistratura alle authorities luso spregiudicato
della posizione dominante in campo informativo e la ricerca di un
rapporto di tipo plebiscitario tra leader e cittadini.
La destra, poi, ha messo in discussione la complementarietà
delle due scelte lopzione europea e lalleanza
transatlantica che per oltre 50 anni hanno guidato la politica
estera italiana, a vantaggio di un rapporto privilegiato con lamministrazione
Bush, a cui viene del tutto subordinata la nostra collocazione europea.
E, infine, la terza scelta: lo Stato minimo, ovvero
la riduzione di ogni azione pubblica, di ogni responsabilità
sociale, di ogni funzione di guida dei pubblici poteri.
La tesi diffusa a piene mani è stata: con il meno,
si offre il più.
E dunque: meno Europa perché è un vincolo soffocante;
meno azione pubblica perché è ostacolo al mercato;
meno Stato sociale perché è un lusso dispendioso;
meno diritti si pensi allarticolo 18 perché
è impedimento alla crescita; meno regole perchè comprimono
la libertà di scelta; meno concertazione con le parti sociali
e meno istituzioni.
Il messaggio di questa strategia destrutturante era semplice e suggestivo:
un paese più leggero potrà finalmente volare.
Lesito è sotto gli occhi di tutti: lItalia non
vola.
Il più non cè. Perché il meno non può
che dare meno.
E così lItalia rischia il declino.
***
Insomma la destra ha tentato non riuscendoci di dare
una soluzione al problema italiano. Mi riferisco alla
crisi della costituzione materiale dellItalia, allesaurirsi
di quelloriginale intreccio di compromessi sociali, funzione
dei partiti di massa, boom industriale del Paese, diffusione del
benessere, crescita culturale e civile, che lungo i primi quarantanni
della Repubblica ha fatto dellItalia una grande e moderna
nazione.
Quella crisi iniziò alla fine degli anni 70
con il rapimento e luccisione di Moro e la fine della solidarietà
nazionale , maturò negli anni 80, conobbe un
ulteriore acutizzazione nell89 con il mutare dello scenario
europeo e mondiale, precipitando poi nel 92 94.
E al termine del decennio che ci sta alle spalle non ha trovato
ancora uno sbocco definitivo.
La destra nel 2001 ha vinto le elezioni perché ha trasmesso
la sensazione di saper affrontare quel problema.
Ma il modello proposto non ha retto alla prova dei fatti: si è
rivelato sbagliato e lesito è sotto gli occhi di tutti.
Qui sta, dunque, oggi la responsabilità del centrosinistra.
Tocca a noi dare soluzione ad una transizione ormai troppo lunga.
Dirò di più: dobbiamo farlo, perché
il Paese non ricomincerà davvero se non si aggrediscono le
tante fragilità che lo minacciano.
Non si tratta soltanto di sostituire una maggioranza di governo,
né soltanto di realizzare una pure importante alternanza
nella guida politica.
Né si tratta semplicemente di tornare a prima del 2001, considerando
lepoca berlusconiana una infelice parentesi da dimenticare.
Si tratta di qualche cosa di più profondo: contrastare una
deriva, mobilitare le tante energie della società; offrire
a ciascuno la possibilità di far valere la propria capacità;
restituire allItalia il senso di una sfida; mettere in campo
una nuova stagione della democrazia; riconsegnare ad una società
lacerata e divisa il valore dellappartenenza e dei legami
profondi che devono far percepire ciascuno parte di una comunità
nazionale; ricostruire la costituzione materiale e morale di questo
Paese.
***
Precisamente qui vive il nostro congresso.
Nello sforzo di definire lidea dellItalia che mettiamo
in campo per conquistare, da oggi al 2006, una maggioranza di consensi
tra gli italiani.
E qui che si misura la nostra funzione dirigente.
Ed è questo il banco di prova del nostro riformismo.
Che cosa voglia dire essere riformisti, che cosa significhi la sfida
riformista, quale sia il progetto di una sinistra che si ispiri
ai valori del socialismo democratico europeo: tutto questo lo dobbiamo
rendere esplicito oggi con un progetto che parli dellItalia
e del suo futuro.
Perché una cosa va detta con chiarezza: noi non pensiamo
di vincere le elezioni politiche solo sullonda del fallimento
della destra.
Noi vogliamo vincere le elezioni sulla base di una nostra visione
della società italiana e del suo futuro.
Ho riletto un passo del discorso daccettazione della candidatura
che John Kennedy pronunciò nel 1960 davanti alla platea dei
delegati democratici.
Penso diceva che i cittadini si aspettino da
noi molto di più che invettive o urla di indignazione. La
situazione è troppo grave, le sfide troppo urgenti, e la
posta in gioco troppo alta per far sì che il dibattito politico
degeneri.
E aggiungeva: se conduciamo una battaglia tra il presente
e il passato, rischiamo di perdere il futuro. E oggi la nostra preoccupazione
deve essere per il futuro. Perché il mondo sta cambiando
e unepoca tramonta.
Per questa ragione, io qui oggi vorrei parlare poco di loro.
Qui, oggi, vorrei parlare soprattutto di noi.
Della nostra visione del mondo, della nostra proposta di governo.
Di noi e dellavvenire dellItalia.
***
Questa Italia, noi prima di tutto la vogliamo pensare nel mondo.
Le immagini di quel che accade a migliaia di chilometri da noi,
entrano in pochi minuti nelle nostre case, coinvolgono le nostre
emozioni, suscitano inquietudini, sollecitano domande di senso sul
destino delluomo e del suo futuro.
La tragedia dello Tsunami, con le sue 250.000 vittime tra
loro tanti nostri connazionali è lì a ricordarci
linsostenibilità di uno sviluppo che ignori o neghi
le leggi della natura e dei cicli biologici.
La vista della soverchiante forza della natura è un brusco
richiamo alla finitudine, come dimensione radicale dell'esistenza
umana. E una brutale replica alle illusioni di prometeico
dominio di una terra che invece ci è solo data in prestito,
e dobbiamo sapere rispettare.
Sono trascorsi più di ventanni da quando Willy Brandt
e Olof Palme due socialdemocratici, due riformisti
richiamarono il mondo a interrogarsi sul suo destino e sui limiti
laceranti di una crescita puramente quantitativa che non si ponesse
lobiettivo di rispettare la natura e ridurre linsopportabile
divario tra il Nord e il Sud del mondo. E quel monito è ancora
attuale. Ed è la frontiera con cui la politica deve misurarsi.
Oggi nel Sud-Est asiatico, ma non solo: dall'altra parte dell'Oceano
Indiano c'è l'Africa, il vero continente alla deriva, l'epicentro
della povertà, della fame, dell'Aids, delle guerre dimenticate.
Alle proposte avanzate da Lula, Zapatero, Lagos, Chirac per una
tassazione internazionale a favore della lotta alla povertà
e allAids e alla decisione di Tony Blair e Gordon Brown -
in vista della presidenza britannica del G8 e, nel prossimo semestre,
dell'Ue - di concentrare verso lAfrica uno sforzo straordinario,
altri atti devono seguire: la riduzione del debito, leffettiva
apertura dei mercati ai paesi in via di sviluppo, lesenzione
di ogni dazio o fisco sulle esportazioni dei 48 paesi più
poveri del mondo, la riduzione delle royalties sui farmaci anti
Aids, la tutela dei beni comuni globali come lacqua.
Così come in tempi in cui venti bellicisti tornano a spirare,
occorre riprendere il cammino del disarmo con negoziati multilaterali
per il blocco degli armamenti nucleari, la distruzione degli armamenti
chimici, la non proliferazione delle armi di distruzione di massa,
la riduzione degli armamenti convenzionali.
E una responsabilità che riguarda anche lItalia:
per questo chiediamo al governo italiano di riprendere le politiche
di riduzione del debito e mettere fine allo scandaloso svuotamento
di ogni politica di Aiuto allo sviluppo.
E diciamo fin da ora che con noi al governo lItalia farà
propri gli obiettivi del Millennium Round e rispetterà limpegno
per lo 0.7% del PIL per lAiuto allo sviluppo oggi siamo
allo 0,15%! adoperandosi per raggiungere il traguardo dell
1%.
Così come chiediamo al Governo italiano di intraprendere,
senza ambiguità e reticenze, lapplicazione del protocollo
di Kyoto e di battersi per la creazione di una Organizzazione Mondiale
dellAmbiente che, insieme allOrganizzazione Mondiale
della Sanità e allOrganizzazione Internazionale del
Lavoro, costituiscano un primo nucleo di governance sociale.
Ed è certo un segno dei tempi che dal Forum Sociale Mondiale
di Porto Alegre e dal World Forum di Davos due sedi così
diverse per composizione e ispirazione culturale siano venute
sollecitazioni e indicazioni convergenti: un'agenda nuova sta forse
cominciando ad essere scritta. E inevitabilmente ad essa devono
corrispondere nuovi equilibri politici.
Ce lo dice anche la vicenda irakena.
Domenica 8 milioni di irakeni si sono recati alle urne nelle prime
elezioni libere dellIrak da decenni.
E un fatto di straordinaria importanza che noi come
ogni democratico salutiamo con gioia, rivolgendo qui un affettuoso
benvenuto ai rappresentanti dei partiti curdi e irakeni ospiti del
nostro Congresso.
Da quel voto escono due indicazioni politiche chiare.
Il popolo irakeno ha respinto il ricatto dei terroristi.
A chi scioccamente e irresponsabilmente ha definito Al Zarkawi e
i suoi accoliti dei resistenti, replichiamo che i veri resistenti
sono quegli 8 milioni di donne e uomini irakeni che, votando, hanno
detto no alla morte e sì alla vita.
E, al tempo stesso, recandosi a votare curdi, sciiti e anche sunniti
hanno voluto dire al mondo e in primo luogo a Bush
che vogliono essere padroni del proprio destino; prendere nelle
loro mani il futuro del loro Paese; lasciarsi alle spalle sia Saddam
Hussein, sia la guerra, per costruire finalmente un Irak libero.
La nostra contrarietà a quella guerra rimane. Per come è
stata giustificata, per lunilateralità con cui è
stata decisa e condotta, per le molte conseguenze negative che ha
prodotto.
Né possono essere ignorate anche le difficoltà che
il voto segnala, a partire dal non risolto coinvolgimento di una
parte della comunità sunnita.
E, tuttavia, non possiamo non vedere che quel voto segna uno spartiacque
e che la priorità per tutti, anche per noi, oggi è
raccogliere le domande di quegli elettori. E le scelte da compiere
vanno assunte non sulla base delle schermaglie del dibattito politico
di casa nostra, ma sul passo e sui bisogni di quella democrazia.
Una grande forza politica che ambisca a governare un Paese non è
chiamata semplicemente a esprimere sentenze o a ribadire giudizi.
Dobbiamo avere una politica che concorra a dare soluzioni ai conflitti
ed ai problemi.
Adesso quelle elezioni siano effettivamente la leva per determinare
un mutamento di scenario.
Si insedi subito il nuovo Parlamento. Si formi il nuovo Governo
rappresentativo di tutte le diverse comunità. Si operi perché
anche quei settori di popolazione sunnita che hanno rifiutato le
elezioni si sentano parte della nazione irakena e si adotti una
Costituzione che tuteli tutte le componenti etniche e religiose
della società irakena.
Si convochi il Consiglio di Sicurezza dellOnu per definire
con quale strategia gestire la nuova fase. E in quella sede si decida
lavvio del ritiro delle truppe di occupazione e la loro eventuale
sostituzione con una forza multinazionale di pace, sotto egida Onu,
che sia percepita dai cittadini iracheni come un elemento di stabilità
e di sicurezza. Ed in questo quadro lItalia definisca le modalità
del rientro dei suoi soldati, riconfermando il sostegno del nostro
Paese a ogni iniziativa che lOnu e lUnione Europea ritengano
di dover assumere per dare stabilità, sicurezza e democrazia
allIrak.
E si convochi una nuova Conferenza Internazionale per varare un
programma straordinario di aiuti sia per la ricostruzione economica,
sia per il rafforzamento delle istituzioni democratiche legittimate
dal voto.
Ma attenzione, proprio il passaggio elettorale irakeno ci sollecita
ad affrontare, senza reticenze, anche unaltra questione.
Come tanti di voi, anchio ho promosso e partecipato a manifestazioni
contro la guerra e per la pace. Ma ogni volta e come me credo
tanti mi sono chiesto turbato perché Saddam Hussein
fosse ancora lì. E che cosa avevamo fatto noi noi
europei, noi sinistra, noi riformisti, noi uomini di pace
per farlo cadere.
Il nostro no a quella guerra e a ogni guerra futura
sarà tanto più efficace e convincente se avremo una
strategia per ottenere con gli strumenti della politica quello che
altri pensano di perseguire solo con le armi.
Quando si negano diritti, quando si torturano oppositori, quando
si reprimono minoranze, quando si vìolano donne, quando si
soffocano libertà, noi non possiamo restare inerti. E tanto
meno possiamo appagarci del falso alibi delle diversità culturali,
etniche e religiose.
Questo intendo dire quando affermo che alla guerra preventiva occorre
sostituire la politica preventiva.
E cioè una strategia attiva che di fronte ai mali del mondo
non allarghi le braccia, né si appaghi di trovare un colpevole,
sperando magari che vi sia di mezzo qualche americano con cui prendersela.
Il riformismo è cambiare le cose, non osservarle, né
subirle.
E quando il Presidente Bush come ha fatto ancora in questi
giorni ripropone le sue dottrine belliciste, noi dobbiamo
non solo denunciarne con forza il pericolo, ma chiederci con quali
strategie politiche agire.
Così, per esempio, di fronte agli inquietanti moniti rivolti
da Bush allIran, è urgente che lUnione Europea
agisca subito nei prossimi colloqui con le autorità
di Teheran ottenendo impegni certi e verificabili che rassicurino
il mondo e lo mettano al riparo da nuove avventure.
Ecco un esempio di politica preventiva.
Sì, serve una politica preventiva per prosciugare le paludi
dellodio dalla Cecenia al Darfur e dare soluzione
politica ai conflitti che insanguinano il mondo, a partire dal conflitto
israelo-palestinese, per il quale si è aperta una nuova finestra
di opportunità, con la elezione di Abu Mazen il più
riformista dei leaders palestinesi e la formazione del gabinetto
Sharon-Peres, voluto con tenacia dal leader laburista israeliano.
Politica preventiva per affermare i diritti civili e umani e la
loro universalità in ogni contesto.
Politica preventiva per favorire il dialogo di civiltà, di
culture, di religioni, dimensione essenziale per un mondo sicuro.
Politica preventiva per lottare contro il terrorismo e riportare
nel circuito della parola cioè della democrazia e
della politica chi, sentendosi escluso, crede di essere riconosciuto
ricorrendo alla violenza e al terrorismo.
Politica preventiva per combattere davvero e con determinazione
ogni forma di oppressione e con essa la fame, la povertà,
le malattie, lo sfruttamento e la tratta delle donne e dellinfanzia,
il sottosviluppo.
E per tutto questo che servono istituzioni multilaterali forti
a partire dallOnu.
Noi non siamo di quelli che invocano lOnu con la segreta speranza
che le sue fragilità le impediscano di agire. Noi puntiamo
sul rafforzamento dellOnu e delle altre istituzioni
sopranazionali come sede di quel multilateralismo, unica,
vera, necessaria alternativa allunilateralismo.
Per questo le Nazioni Unite devono essere dotate di risorse, strumenti,
legittimità così come indicato nel rapporto presentato
dal Gruppo dei Saggi a Kofi Annan. E devono essere guidate da un
Consiglio di Sicurezza effettivamente rappresentativo del mondo
di oggi, a cui affiancare un Consiglio di Sicurezza economico, che
assuma la funzione di indirizzare e coordinare lazione delle
istituzioni finanziarie internazionali, perseguendo strategie non
solo di espansione del libero commercio, ma anche di tutela di diritti
umani, di sviluppo sostenibile, di redistribuzione di opportunità
a favore di paesi deboli.
***
E per questo che ci vuole lEuropa.
In un mondo sempre più indipendente, guai se lEuropa
si sentisse appagata della sua prosperità, preoccupandosi
solo di proteggerla. Questa stessa possibilità dipende dalla
capacità di essere un attore globale, un fattore riequilibrante
delle dinamiche mondiali, dei rapporti di forza, degli equilibri
tra continenti.
UnEuropa che non si faccia scudo dei suoi egoismi protezionistici
e sia capace di interloquire e negoziare con nazioni emergenti e
paesi in via di sviluppo, che non si accontentano di parole di comprensione,
ma chiedono un mutamento delle ragioni di scambio ed apertura dei
mercati.
UnEuropa che, forte dei suoi valori occidentali, assuma su
di sé la responsabilità di promuovere un confronto
tra civiltà, culture e religioni sul cruciale tema della
secolarizzazione, cioè quella separazione tra sfera politica
e sfera religiosa, decisiva per affermare in ogni luogo democrazia
e diritti.
UnEuropa che non si sottragga alla responsabilità non
meno rilevante di sanare la frattura che, con la vicenda irakena,
si è consumata tra Stati Uniti e mondo.
Proprio quella guerra dimostra che gli Stati Uniti da soli non ce
la fanno a governare il pianeta. Ma, nessuno può pensare
di governarlo senza o contro gli Stati Uniti.
Anzi, proprio nel momento in cui sulla scena mondiale si affacciano
nuovi protagonisti la Cina, lIndia, il Brasile, il
Sud Africa, luniverso islamico lEuropa deve sentire
la responsabilità di sottrarre lAmerica alla solitudine
imperiale per ripristinare tra le due sponde dellAtlantico
un comune agire.
Non serve unEuropa vassalla. Ma non servirebbe davvero un
protagonismo europeo in chiave antiamericana.
La condizione perché tutto ciò avvenga è che
lEuropa esista e sia forte. Qui cè anche la nostra
responsabilità.
Nessun paese europeo può pensare il proprio futuro in una
dimensione autarchica o protezionistica.
LEuropa è e sarà sempre di più il luogo,
la dimensione, lo spazio della vita di tutti gli europei.
Daltra parte non è forse questo il significato più
profondo dellallargamento dellUnione Europea a 10 nuovi
paesi? E non dice la stessa cosa la volontà dei Balcani di
ritrovare nellintegrazione europea il definitivo superamento
delle contrapposizioni etniche?
E non è forse per la stessa ragione che Turchia e Ucraina
due grandi nazioni, ai confini dell'Europa, terre di frontiera
con la Russia e col mondo arabo-islamico bussano alle porte
dell'Unione?
Ecco, per noi lItalia deve stare lì, con i piedi, il
cuore, la testa nellUnione Europea.
E non per una ragione ideale soltanto.
Ma perché se si guarda ai sessantanni di storia repubblicana,
non si può non vedere che la piena adesione alla integrazione
europea è stata una delle condizioni dello straordinario
balzo in avanti compiuto dal nostro Paese.
Sì, cari compagni e cari amici, è tempo di reagire
alla campagna populistica e provinciale che la destra conduce contro
lEuropa.
A stare in Europa lItalia non ci ha rimesso, ci ha guadagnato.
Non saremmo mai divenuti quella grande nazione che siamo oggi se
non avessimo beneficiato di tutte le opportunità che sono
derivate dallaver partecipato, fin dalla fondazione, alla
comunità europea.
E anche in anni più recenti, senza lEuropa lItalia
sarebbe stata una nazione alla deriva e tutte le sue fragilità
si sarebbero acutizzate ancor di più.
E agganciandoci allEuropa che noi del centrosinistra
abbiamo ridato stabilità a un paese che aveva uninflazione
tripla rispetto alla media europea, il debito pubblico più
alto dEuropa e un deficit di bilancio che, anno dopo anno,
ci indebitava sempre di più.
Certo, sappiamo bene che anche lUnione Europea e le sue politiche
hanno bisogno di essere rivisitate. E, anzi, da anni sosteniamo
la necessità di revisioni del Patto di Stabilità,
lungo le proposte che un riformista e socialista Jacques
Delors per primo ha proposto.
Ma un conto è interrogarsi come andare oltre, verso una integrazione
più forte e più efficace, più vicina ai cittadini.
Altro conto è evocare come fa la destra italiana
la nostalgia del passato e rappresentare lEuropa come un rischio,
un vincolo soffocante, un danno, rivelando così una reticenza
euroscettica da cui lItalia non può che trarre, sì,
danno.
In questi anni lUnione ha conosciuto salti enormi: la moneta
unica, il mercato integrato, lallargamento, la crescita di
politiche comunitarie in ogni campo, la Costituzione.
Una progressione così travolgente, nella sua rapidità,
da creare problemi di gestione e soprattutto di adeguamento delle
stesse categorie culturali e politiche con le quali pensiamo l'Europa.
E questa la nuova frontiera dellintegrazione europea:
dopo aver realizzato con la moneta unica stabilità;
dopo aver avviato con lallargamento una più
ampia area di integrazione e di unità politica; dopo aver
consolidato con la Costituzione la sua dimensione
politica e istituzionale; adesso lUnione è di fronte
alla esigenza di rimettere in moto crescita, competitività,
lavoro e qualità civile e sociale dello sviluppo. E, dunque,
occorre che le politiche di bilancio e di convergenza e il Patto
di stabilità siano riorientati a quegli obiettivi.
In ogni caso questo è per noi un punto irrinunciabile: lItalia
deve pensarsi in Europa e con lEuropa.
E con noi sarà così.
***
Questa, daltra parte, è anche la condizione per affrontare
il vero nodo cruciale dellItalia di oggi: tornare a far crescere
questo Paese.
Richiamo la vostra attenzione su questo punto.
La sinistra ha tradotto storicamente i propri obiettivi di uguaglianza
in unazione per la redistribuzione dei benefici dello sviluppo.
Ma dando per acquisito perché così era
che la crescita ci fosse. E che, dunque, di volta in volta compito
nostro fosse decidere semplicemente se essere più arditi
o più moderati nelle rivendicazioni.
E, invece, oggi non è così.
LItalia non cresce o comunque cresce in misura insufficiente
sia a finanziare una adeguata politica di investimenti, sia a redistribuire
i suoi benefici.
E un paese che non produce ricchezza, può redistribuire una
sola cosa ai suoi cittadini: debiti.
E quel che è già accaduto in altri periodi.
E può tornare ad accadere oggi.
Non cresciamo perché il nostro sistema produttivo si è
sviluppato su tecnologie di media intensità, oggi più
facilmente delocalizzabili e producibili in paesi a basso costo
del lavoro.
La piccola e piccolissima impresa gode di innegabili vantaggi in
termini di dinamicità e adattamento ai mercati, ma soffre
anche di limiti obiettivi nei volumi produttivi, nellautofinanziamento,
nella capacità di innovazione, nellaccesso a mercati
lontani.
Scontiamo il divario di una minore qualificazione scolastica e formativa
e un'insufficiente livello di ricerca e innovazione.
Pesano la cronica insufficienza di infrastrutture, o l'inefficienza
della pubblica amministrazione o la rigidità del sistema
bancario, mentre, si è andato nuovamente accentuando lo squilibrio
territoriale Nord-Sud, sconosciuto in termini così macroscopici
a qualunque altro paese europeo.
Sono questi i nodi da aggredire.
Non si cresce spalmando qualche esigua riduzione fiscale, ma misurandosi
con le sfide alte dello sviluppo: la specializzazione
tecnologica; la crescita dimensionale delle imprese; linternazionalizzazione;
la politica energetica; le infrastrutture e le reti. E il territorio,
e il patrimonio di storia, cultura, civiltà che incorpora,
come una leva per dare alla crescita qualità sociale e ambientale.
E, in questa chiave, il Mezzogiorno visto non come problema
ma come lopportunità di rendere attive risorse inespresse
o sotto utilizzate: risorse naturali e ambientali, risorse storiche,
culturali, identitarie e prima di tutto grandi risorse umane a cui
si deve offrire non qualche mancia assistenziale come sta
nuovamente avvenendo ma strumenti per favorire investimenti,
formazione, servizi.
Insomma: non sta scritto da nessuna parte che lItalia debba
rassegnarsi al declino industriale.
Certo, non basta riproporre il modello industriale di ieri.
Bisogna rinnovarlo profondamente.
E questo richiede una scelta strategica, che lItalia non ha
mai davvero compiuto e oggi non è più rinviabile:
investire in quella ricchezza sociale che è il capitale umano;
il sapere, la conoscenza.
Non paia questo tema astratto.
Le grandi nazioni sono diventate tali perché hanno investito
nel sapere e sulla conoscenza.
Noi no.
Nella popolazione tra 21 e 65 anni abbiamo il 12% di laureati a
fronte del 38% degli Stati Uniti e il 33% in Gran Bretagna, Francia
e Germania.
E tra i 25 e 34 anni soltanto il 57% in possesso di titolo di studio,
mentre è l85% in Germania, il 78% in Grecia, il 95%
in Corea e il 94% in Giappone.
Abbiamo il più alto tasso di abbandoni universitari e nelle
scuole superiori e la più bassa percentuale europea di asili
nido e scuole dellinfanzia.
Abbiamo uno dei più bassi tassi europei di investimento pubblico
sulla ricerca con 2,8 ricercatori ogni 1000 occupati, la Francia
6,2, la Germania 6,4, il Giappone 9,3.
Abbiamo 54.000 studenti iscritti ai corsi di laurea in comunicazione
di massa, mentre si riducono anno dopo anno gli iscritti a ingegneria,
chimica, fisica, scienze matematiche.
Le nostre Università non hanno risorse per finanziare ricerca
e cresce ogni anno il numero di giovani laureati e ricercatori che
cercano allestero quelle chances che qui sono impossibili.
Siamo tra i paesi che hanno il più alto numero di telefoni
cellulari, ma li produce la Finlandia, che non a caso destina il
3% del Pil alla ricerca.
Sono queste le ragioni per cui abbiamo contestato la Moratti: perchè
la sua politica non aggredisce queste criticità, ma le aggrava.
Per questo diciamo con forza: facciamo dellinvestimento sul
capitale umano una scelta strategica destinando una quota di risorse
più alta alla scuola pubblica e alluniversità
e valorizzandone lautonomia.
Portiamo entro il 2009 la spesa pubblica per ricerca al 2%.
Mettiamo in campo un vasto programma di information technology,
che innalzi la alfabetizzazione digitale e consenta alle piccole
e medie imprese di usare la rete per arrivare là dove con
le sole loro strutture fisiche non arriverebbero.
Si organizzino infrastrutture di ricerca e luoghi di interscambio
e trasferimento di tecnologie e si assumano subito 5000 giovani
ricercatori per dare un segnale forte.
Si istituisca lAgenzia per la ricerca e lo sviluppo tecnologico
e si investa su alcuni grandi progetti pilota nazionali di rapporto
tra Università e imprese.
E insieme a ciò variamo un grande programma di formazione
permanente capace di sostenere un mercato del lavoro flessibile
e di mettere ciascuno nelle condizioni di puntare sulle proprie
capacità.
E incentiviamo comunità, associazioni, individui, imprese,
territori ad impossessarsi sempre di più delle nuove tecnologie,
incentivando un uso produttivo dei nuovi sistemi di comunicazione,
meno passivo e più interattivo, meno verticistico e più
pluralistico.
Il 2005 è lanno di Einstein, il 2009 sarà lanno
di Galileo.
Vogliamo impegnare questi quattro anni per far decollare unItalia
del sapere e della conoscenza!?
Allora sì ha senso porre come è giusto e come
dobbiamo porre senza reticenze anche il tema della qualità
della scuola, del rigore degli studi, della necessità di
una costante valutazione dei docenti, di andare al di là
del solo valore legale del titolo di studio e certificare leffettivo
sapere acquisito.
Ma tutto questo si può fare e si deve fare
se si investe sulla formazione, si scommette sulla conoscenza e
così tutti capiscono che sapere di più, studiare di
più è il modo per avere più chances.
Questo è il riformismo che vogliamo: che chiede a tutti di
puntare al meglio su di sé, perché crea le condizioni
affinché ognuno lo possa fare, libero da barriere di reddito
e da sfavorevoli eredità sociali.
***
Compiere queste scelte conduce ad un altro nodo cruciale: il rapporto
tra mercato e politiche pubbliche.
Spesso si rappresentano questi due termini in antitesi, quando invece
appaiono sempre più inscindibili e complementari.
LItalia è una buona dimostrazione di ciò.
La destra evoca a ogni pie sospinto il mercato, ma poi ne
ha spesso paura e si rifugia facilmente nel protezionismo.
E daltra parte come potrebbe essere diversamente visto che
la destra italiana si è scelta come leader un imprenditore
che nel mercato ci vuole stare da monopolista assoluto, magari controllando
anche il principale concorrente? E non trova imbarazzante essere
titolare di continui conflitti di interesse che, oltre che violare
letica pubblica, alterano proprio il mercato e la concorrenza?
Noi che siamo la sinistra non abbiamo alcun imbarazzo a dire che
lItalia ha bisogno di più mercato.
Serve più mercato nelle libere professioni, abbattendo barriere
che impediscono a migliaia e migliaia di giovani di poter accedere
alle attività professionali.
Serve più mercato nel sistema finanziario e bancario, favorendo
laccesso al credito per chi ha idee, e non solo mattoni da
offrire in garanzia. Serve più mercato nei settori pubblici
essenziali a vantaggio di consumatori e cittadini, a partire da
una produzione e distribuzione di energia meno cara e più
pulita; serve più mercato nella diffusione delle reti e dellinformation-technology
per una più semplice accessibilità a brevetti, conoscenze,
mercati; serve più mercato nel sistema televisivo e nella
pubblicità che lo sostiene.
E tutto ciò è urgente per liberare risorse, rompere
corporativismi e rendite di posizione, creare nuove opportunità
di investimento e di lavoro. Per aprire la società. E prima
di tutto aprirla ai giovani.
E contemporaneamente lItalia ha bisogno di più politiche
pubbliche.
Non cè in questa affermazione alcuna nostalgia.
Lo Stato che si fa imprenditore producendo lingotti, auto,
lambrette, panettoni, pelati inscatolati appartiene ad unaltra
fase dello sviluppo.
Ma se si vuole fare ricerca, investire nel sapere, ammodernare infrastrutture
materiali e digitali, investire in energia pulita, valorizzare territorio
e ambiente, restituire città e il loro habitat alla vita,
tutto ciò non si fa senza forti politiche pubbliche, condizione
anche per mobilitare risorse private.
E se occorrono ammortizzatori sociali efficaci per un mercato del
lavoro flessibile; se si vuole rendere moderna la macchina pubblica
e valorizzare chi ci lavora: anche in questo caso servono forti
politiche pubbliche.
E così che noi vogliamo far tornare a crescere lItalia,
restituendo a chi fa imprese lorgoglio del proprio successo;
a chi lavora il riconoscimento delle proprie capacità; a
chi studia e ricerca, la voglia di farlo per sé e per il
proprio Paese.
***
Linvestimento nel capitale umano è anche la leva per
affrontare laltro nodo strategico: quale Stato sociale per
una società flessibile.
Per farlo occorre liberarsi di una visione ideologica secondo cui
competitività e coesione sono incompatibili; e, dunque, ridurre
drasticamente il welfare sarebbe lunico modo per finanziare
la crescita.
Non è così.
Basterà ricordare che le nazioni scandinave, patrie del più
robusto welfare state che si conosca, registrano anche a più
alti tassi di produttività.
E guardando allItalia, i punti di maggiore specializzazione
tecnologica e competitività si sono realizzati negli ultimi
quindici anni nei Distretti Industriali, dove più integrato
è il rapporto tra impresa, territorio, soggetti sociali,
sistema dei poteri locali e servizi pubblici.
E, anche guardando allAsia una delle aree dove di più
vigono le regole della competizione si può facilmente
costatare che quando la Corea e le altre tigri asiatiche
sono approdate ad un certo livello di crescita, è stato ineludibile
passare dalla dittatura alla democrazia e creare una sistema di
sicurezze sociali e di diritti.
Si ignora, insomma, che nei paesi avanzati il welfare è ormai
un dato irrinunciabile di civilizzazione del mercato
e lo stato sociale non è solo redistribuzione, ma fattore
costitutivo dello sviluppo.
Daltra parte la spesa sociale italiana è più
bassa della media europea. E lo è in tutte le voci: spendiamo
di meno per le famiglie; spendiamo di meno per i bambini; spendiamo
di meno per le persone non autosufficienti; spendiamo di meno per
gli anziani; e spendiamo meno per la sanità, pure in una
società in cui il tempo di vita si allunga e la domanda di
cura cresce.
E spendiamo meno per la scuola, dove pure abbiamo appena dimostrato
è necessario investire di più.
E se si separa la spesa previdenziale dagli oneri per la cassa integrazione
e ammortizzatori sociali oggi tutti a carico dellInps
si scopre che per le pensioni la spesa italiana non è
più alta della media europea e per gli ammortizzatori sociali
è nettamente inferiore.
E, dunque, la riforma del welfare va affrontata ecco la differenza
tra i riformisti e i conservatori non sulla base della supposta
insostenibilità finanziaria, ma individuando quali siano
i nuovi rischi e i nuovi bisogni di una società che non è
più retta dalla staticità del lavoro e non ruota più
intorno alla organizzazione sociale fordista.
E, dunque, serve un welfare in cui i cittadini abbiano diritto a
ricevere prestazioni non perché appartenenti a questa o quella
categoria sociale, ma in funzione delle condizioni di bisogno e
dei rischi a cui concretamente sono esposti.
Serve una riforma coraggiosa del welfare non per dare meno, ma per
dare meglio e a chi rischia di più.
E, in secondo luogo, serve un welfare che metta al centro la persona
sia nella sua individualità di cittadino, sia nel suo sistema
di relazioni familiari: i bambini, i figli, i nonni, la parità
nella coppia.
Cè intanto una assoluta priorità: tornare a
dare certezze al lavoro che in questi anni è stato esposto
ad una continua riduzione di peso e considerazione: 2 lavoratori
atipici su 3 sono cronicamente precari; il 65% degli italiani di
età tra 21 e 35 anni ha un lavoro precario, discontinuo o
a termine; abbiamo la più bassa quota di occupazione femminile
dellUnione Europea; nel 48% delle famiglie lavora una sola
persona.
E anche chi lavora in grandi imprese non è più garantito
per sempre, come dimostra bene il caso della Fiat, in questi giorni
ad un tornante cruciale per la vita stessa di quella azienda; o
il caso dei lavoratori della Thyssen di Terni, a cui va la nostra
solidarietà.
Non si tratta di contestare lesistenza di un mercato del lavoro
mobile e flessibile, né di esorcizzare delocalizzazioni che
spesso sono lunico modo per tenere produzioni e mercati.
Ma nessun uomo o donna è disposto ad accettare una condizione
di perenne precarietà esistenziale.
E oggi questo rischio lo corrono molti.
Lo corrono, in primo luogo, le tante famiglie costrette a vivere
con redditi sempre più stretti.
Le cifre dicono più di ogni ragionamento: nel 2004 limporto
medio di tutte le pensioni erogate dall Inps è stato
di 650 euro al mese. Oltre il 50% delle pensioni Inps non supera
i 600.
Una lavoratrice tessile con 25 anni di anzianità ne percepisce
850.
Un lavoratore Fiat con 35 anni di azienda 1.100.
E una bibliotecaria alla III Università di Roma con
tanto di laurea e specializzazione 1.000.
Sono cifre che dicono che cè una questione salariale
aperta.
E una politica riformista ha il dovere di agire per una rivalutazione
dei redditi da lavoro con almeno quattro misure: politiche contrattuali
che recuperino linflazione reale; fiscalizzazioni di oneri
sociali che riducano il differenziale tra salario lordo e salario
netto, in primo luogo per le fasce più basse; sostegni al
reddito per chi non ha lavoro o nei periodi intermittenti di non
lavoro; una rivalutazione delle pensioni minime, sostenendo contemporaneamente
il decollo della previdenza complementare.
Ed è aspetto non secondario intervenire sul livello degli
affitti, il cui costo, oggi è lonere più gravoso
per molte famiglie, soprattutto giovani o di anziani soli.
Non ignorando, in ogni caso, che la principale politica redistributiva
è aumentare il tasso di attività: fino a che in 48
famiglie italiane su 100 lavorerà ununica persona sarà
difficile assicurare redditi familiari dignitosi.
E, dunque la questione nodale torna a essere lincentivazione
ad ogni forma di occupabilità, che solo si realizza se si
aprono spazi, si offrono opportunità, si creano condizioni
di impiego in ogni direzione e con una pluralità di forme.
Insomma è una società dinamica quella di cui abbiamo
bisogno.
E si giunge così al punto cruciale di un moderno welfare:
intervenire là dove disuguaglianze, disparità, nuove
e vecchie povertà rischiano di produrre la maggiore dispersione
e spreco di capitale umano.
E oggi è larea delle 3G: generazioni, generi,
genti.
Generazioni intanto.
Attenzione: per la prima volta viviamo in una società che
non assicura ai figli la certezza di avere più opportunità
dei padri.
La precarietà sta diventando la condizione esistenziale di
una generazione che studia troppo a lungo; entra nel mercato del
lavoro troppo tardi; si sposa a trentanni; e, spesso, senza
la certezza di una vita sicura per sé e per i suoi figli.
E un rischio che non comincia a 18 anni; spesso comincia molto
prima.
Per questo indichiamo una priorità nellinfanzia, perché
lì inizia spesso il circuito dellesclusione, dello
svantaggio delleredità sociale.
Investire sui bambini assicurando loro asili nido, scuole
dellinfanzia, servizi educativi, come proponiamo con la iniziativa
di legge popolare Zeroseianni su cui abbiamo avviato
la raccolta delle firme dei cittadini è essenziale
sia per assicurare benessere fin dalla nascita un bambino
felice, sarà un adulto maturo, ci ha insegnato Giovanni Bollea
sia per sostenere il ritorno alla natalità e consentire
quella conciliazione famiglia-lavoro senza la quale continueremo
ad avere bassi tassi di occupazione femminile.
Per le stesse ragioni individuiamo nella formazione il cuore di
un sistema di opportunità per i giovani.
I nostri genitori trovavano un lavoro, manuale od intellettuale
che fosse, e lo portavano con sé per tutta la vita; esso
diventava la fonte per la costruzione della propria identità
sociale e personale.
La nostra generazione non vive più di quel sistema di certezze
e ha la necessità di imparare il mutamento. Vogliamo possedere
le chiavi che ci diano laccesso ad un aggiornamento e ad uninnovazione
continua.
Così è scritto nelle tesi del Congresso della Sinistra
Giovanile che si terrà tra un mese.
E, dunque, ritorna la centralità del sapere e della conoscenza
per offrire a un giovane più opportunità di lavoro
e di vita.
E, poi, si tratta di agire sul mercato del lavoro: stabilizzando
chi è precario; offrendo una formazione permanente che consenta
una reale mobilità sociale; realizzando uguaglianza di tutele
e di diritti quale che sia il tipo di lavoro e di contratto; assicurando
un reddito dignitoso, anche nei tempi in cui non si lavora, e un
sistema di ammortizzatori esteso a ogni tipo di azienda e a ogni
tipologia di lavoro.
Sono condizioni essenziali per consentire ad un giovane di vivere
la flessibilità senza lincubo di vederla trasformarsi
in precarietà, insicurezza, paura del futuro. E consentirgli
di comperarsi casa, di farsi una famiglia, di mettere al mondo figli.
E soprattutto di scommettere su di sé, sulle proprie capacità,
di promuovere sé stesso.
Non si tratta solo di stanziare risorse o varare leggi.
Si tratta di costruire un sistema flessibile e mobile di welfare.
Penso al governo laburista inglese che ha istituito un Servizio
nazionale per limpiego con centinaia e centinaia di sportelli
in tutto il Regno Unito, che si occupano di fare incontrare domanda
e offerta, accompagnano la singola persona nel suo percorso lavorativo,
ne curano la formazione quando deve passare da un lavoro allaltro,
intervengono a sostenerlo nel reddito, si assicurano che i figli
non siano emarginati, aiutano a cercare la casa.
Ecco di fronte alla legge 30 che è una brutta legge
perché accresce non la flessibilità, ma la precarietà
dobbiamo sì dire che la cambieremo, ma anche indicare
una forma di organizzazione del mercato del lavoro capace di orientare
la mobilità, realizzare politiche attive e, così,
far sì che nessuno sia lasciato solo.
Parallelamente non è più rinviabile puntare su un
invecchiamento attivo per una popolazione ultra sessantenne
che è gia 1/3 del Paese e, con lallungamento del tempo
di vita, crescerà.
Letà pensionabile non è più un discrimine
significativo; anzi la maggioranza delle persone giunge alla pensione
in condizione psichiche e fisiche vitali, ancora disponibile a spendere
il proprio patrimonio di professionalità, esperienze di vita,
affettività, in nuove attività individuali e sociali.
E, dunque, serve incoraggiare con incentivi e nuove forme
di impiego chi vuole permanere volontariamente in attività
anche oltre letà pensionabile; sperimentare forme di
part-time civico e di volontariato sociale; impegnare gli anziani
in impieghi di utilità pubblica.
Perché non pensare, ad esempio di diffondere le felice esperienze
di affiancamento delle residenze protette per anziani autosufficienti
agli asili nido e alle scuole materne, in modo da rendere ancora
fruibile lenorme patrimonio di esperienza e di affettività
di cui una persona anziana è ricca?
Così come ci vuole un Fondo nazionale per le persone non
autosufficienti che provveda a 4 milioni di anziani, la cui cura
spesso è oggi scaricata unicamente sulle spalle dei familiari.
La seconda G: i generi.
Il ruolo attivo delle donne nel mondo è una delle grandi
novità del nostro tempo; la loro libertà e il loro
benessere appaiono sempre più determinanti per la libertà
e il benessere di tutti.
Come scrive Amartya Sen Oggi, verosimilmente, nelleconomia
politica dello sviluppo niente ha unimportanza pari a quella
di un riconoscimento adeguato della partecipazione e della funzione
direttiva, politica, economica e sociale, delle donne. Si tratta
di un aspetto davvero cruciale dello sviluppo come libertà.
Con la destra al governo del paese la quotidianità si è
fatta pesante per molte, troppe donne; la precarietà nel
lavoro, che tocca particolarmente le giovani ragazze, lassenza
di politiche di conciliazione, la destrutturazione dello stato sociale
e la caduta dei livelli di solidarietà e di servizi, a cominciare
da quelli per linfanzia e per la non autosufficienza, costringono
a scegliere fra lavoro e maternità, fra affetti e carriera.
Il nostro progetto riformista intende mettere al centro le donne,
le loro aspirazioni, la loro libertà.
La qualità dello sviluppo e la crescita del paese hanno bisogno
delle donne, la cui inoccupazione e disoccupazione, particolarmente
nel Mezzogiorno, sono fra le cause strutturali della crisi italiana.
Serve, dunque, fare dellincremento del tasso di attività
femminile oggi al 43% contro il 55% europeo una priorità:
incentivando in ogni modo loccupabilità delle donne
sia nel mondo del lavoro dipendente, sia nelle attività autonome
e professionali; realizzando quelle politiche di formazione e quei
servizi sociali che consentano la conciliazione famiglia-lavoro;
aprendo ogni spazio alle capacità femminili e mettendo in
discussione esclusivismi maschili.
Cè molto da fare: pochissime donne sono nei vertici
delle aziende, della pubblica amministrazione, del sistema bancario,
della magistratura.
LItalia è allultimo posto in Europa per numero
di elette nelle istituzioni, poco più del 10%.
Abbiamo voluto con forza la riforma dellarticolo 51 della
Costituzione, che oggi parla esplicitamente di garantire pari opportunità
di accesso per uomini e donne alla vita pubblica, proprio per colmare
il divario tra ruolo delle donne e loro riconoscimento istituzionale.
E, infine, il ruolo dei cittadini immigrati diviene sempre più
centrale, in un paese a bassa natalità e a livelli di disoccupazione
calanti.
E già oggi il 5% della popolazione. Sarà il
doppio nel 2010. E già adesso tra i bambini 1 su 3 è
figlio di cittadini stranieri.
Una funzione non solo produttiva peraltro spesso in mansioni
per le quali è difficile reperire forza-lavoro nazionale
ma sociale, se solo si pensa a quanto le badanti
straniere siano decisive per sottrarre singoli anziani alla solitudine
o per consentire a donne con figli di avere un lavoro.
Non ci basta più dire che limmigrazione è una
risorsa.
Ci serve costruire una società multietnica e multiculturale,
con politiche di accoglienza, di integrazione, di formazione, di
allocazioni abitative.
E questo significa anche costruire una società in cui culture,
civiltà, religioni, convivendo, si conoscano e si riconoscano,
offrendo a ciascuno la tutela delle proprie identità e alla
nostra società la certezza dei suoi valori e delle sue regole.
Sono, dunque, queste le priorità intorno a cui pensare un
welfare della società flessibile. Un welfare non statico,
ma al contrario capace di accompagnare il cittadino nei diversi
percorsi della vita, di rimuovere ostacoli, promuovere occasioni,
favorire mobilità sociale e, soprattutto, intervenire là
dove buchi di povertà possono compromettere la
serenità di vita della persona e della famiglia.
***
Naturalmente sappiamo che, a questo punto, dobbiamo rispondere
ad una domanda: chi paga? Come si finanzia questa politica?
Noi crediamo che non solo si debba, ma si possa rispondere.
Daltra parte nella nostra azione di governo, abbiamo dato
al paese la prova della nostra affidabilità, realizzando,
negli anni del centrosinistra, obiettivi di risanamento della finanza
pubblica tuttaltro che scontati.
Nel suo decalogo del buon riformismo, il primo ministro svedese,
il socialdemocratico Goran Persson ricorda che finanze pubbliche
sane sono un prerequisito per la crescita e che un paese indebitato
non è libero.
Proprio per questo, il primo punto della nostra strategia per il
rilancio è e sarà tornare ad un avanzo primario necessario
per una decisa riduzione del debito, destinandovi le risorse aggiuntive
ottenute con le privatizzazioni.
Gli strumenti per ottenere una finanza pubblica efficace ci sono.
Intanto un rigoroso controllo della spesa, che combatta sacche di
minore produttività, sprechi e inefficienze, che ci sono
e su cui si può incidere.
Risorse significative possono essere reperite con una politica fiscale
seria e ricostruendo un rapporto trasparente fra contribuente e
amministrazione finanziaria , logorato da anni di condoni e sanatorie
che noi non intendiamo fare.
Tra il 98 e il 2001 Visco ridusse la pressione fiscale di
4 punti senza che lerario subisse alcuna riduzione di introito.
E la dimostrazione che se si fa una politica fiscale seria,
recuperando risorse attraverso una lotta a elusione e evasione,
ci stanno anche riduzioni.
Mentre pensiamo che oggi sia irrealistico puntare su generalizzate
riduzioni fiscali, sono utili riduzioni mirate come la fiscalizzazione
di una quota degli oneri sociali per alleggerire le tasse a imprese
e lavoratori; o come crediti di imposta e agevolazioni fiscali per
chi investe in innovazione, stabilizza giovani assunti, alloca investimenti
al sud, accresce la dimensione della propria impresa. Ma queste
misure sono possibili se si allarga la platea fiscale e il dovere
fiscale torna a essere un impegno civico.
Quel che non è accettabile è il messaggio populistico
di Berlusconi, per cui le tasse sarebbero una rapina ai danni del
cittadino e dunque lunica cosa da fare è restituire
il maltolto.
No, signor Presidente, il fisco non è una rapina; il fisco
è lo strumento con cui una nazione moderna finanzia ospedali,
scuole, università, asili nido, strade, ferrovie, porti e
realizza equità tra i cittadini.
E se anziché usare il fisco come una mancia con cui cercare
di procacciarsi voti, lei avesse usato bene le risorse pubbliche
e fatto una politica fiscale seria, oggi lItalia non sarebbe
nelle condizioni critiche in cui è.
Naturalmente una politica delle risorse rigorosa deve fare leva
anche sulla responsabilità dei singoli.
Guai a fare "parti uguali tra disuguali", ammoniva Ermanno
Gorrieri, un uomo che da poco ci ha lasciato e a cui rivolgiamo
il nostro ricordo affettuoso.
Voglio essere più esplicito.
In America quando entri in un ospedale ti chiedono di mostrare la
carta di credito e se non hai il reddito sufficiente, la cura non
è garantita o addirittura è esclusa. Quello non è
un sistema universalista.
Noi, invece, vogliamo una sanità pubblica nella quale quando
un cittadino entra in una struttura sanitaria, gli si chieda soltanto
per quale malattia è lì e lo si curi.
Ma è del tutto coerente con questo impianto universalista
che si chieda a chi ha disponibilità di reddito di concorrere
per una quota alle spese sostenute per la sua cura.
Insomma: non è realistico affidare il finanziamento di ogni
spesa sociale alle sole risorse della fiscalità generale.
Si può e si deve pensare a forme di contribuzione complementare
che, riconfermando luniversalità dei diritti e lassoluta
uguaglianza delle prestazioni, consentano di disporre di risorse
aggiuntive, facendo leva sulla responsabilità individuale.
Peraltro questo è anche il modo più efficace per evitare
la scorciatoia demagogica e improduttiva di sostituire i servizi
con forme di monetizzazione.
Bonus e vaucher con cui la destra propone continuamente di
risolvere ogni domanda sociale possono essere utili; non
se sostitutivi a servizi, ma come forme complementari di sostegno
a chi non dispone del reddito per usufruire di servizi a tariffa
o a retta.
Contributo rilevante ad una spesa efficiente e ad uno stato sociale
flessibile sono poi le forme di organizzazione dei servizi, la cui
responsabilità va sempre di più affidata agli Enti
locali dove la spesa e la qualità dei servizi è
più verificabile e controllabile da chi amministra e da chi
è amministrato ampliando il ricorso a forme di volontariato,
no-profit, imprese sociali, grazie ai quali già in questi
anni si è sviluppata una rete di servizi e prestazioni di
qualità.
Né meno rilevante è il contributo di risorse che può
venire dai privati e dal mercato, a cui vanno offerte opportunità
e strumenti per investire sul sociale e su servizi di pubblica utilità,
perché non tutto ciò che è servizio pubblico
deve necessariamente essere erogato da strutture pubbliche.
E, infine, deve essere parte di una politica delle risorse, un'organica
politica di liberalizzazioni, che spezzi le incrostazioni oligarchiche
alimentate dall'ideologia illiberale e oligopolistica della destra.
Insomma: insieme ad una tutela sociale vera, gli italiani devono
poter riconoscere nel nostro welfare, anche l'idea di un'Italia
efficiente anche perché più concorrenziale, dinamica
anche perché più meritocratica, unita anche perché
più giusta.
Non sono politiche facili o indolori, né economicamente,
né socialmente: promuovere gli interessi di chi ha più
meriti e più bisogni, premiare la capacità e non solo
lanzianità, vedere nella mobilità sociale unopportunità
e non solo il pericolo, suscita la reazione degli interessi conservatori
e corporativi, di quanti traggono vantaggio dal mantenimento dello
status-quo.
Ma il riformismo è questo: abbattere ogni forma di disuguaglianza,
di barriera, di ostacolo al libero dispiegarsi della capacità
di ognuno e promuovere politiche attive che consentano a ciascuno
di potersi misurare con le proprie scelte di vita.
E intorno a questidea di welfare va costruito un nuovo grande
patto sociale.
Il centro destra, in questi anni, ha azzerato la concertazione e
puntato alla divisione sindacale.
Il venir meno dei principi della coesione e della solidarietà
hanno contribuito a portare il Paese in un vicolo cieco. Per noi,
viceversa, laffermazione di questi contenuti richiede un nuovo
grande patto sociale e una nuova politica dei redditi che, per essere
realizzati, hanno bisogno del sostegno e della convinta partecipazione
unitaria del sindacato confederale e di tutte le parti sociali a
una rinnovata stagione di concertazione.
Politiche industriali, competitività, diritti, lavoro, difesa
del potere dacquisto delle retribuzioni, costituiscono le
coordinate dello sviluppo qualitativo e sostenibile del Paese che
noi vogliamo.
Importanti e prossimi appuntamenti contrattuali riguardano quasi
sei milioni di lavoratrici e lavoratori dei settori pubblici e privati,
e noi salutiamo positivamente laccordo unitario per il rinnovo
del biennio economico raggiunto dal sindacato dei metalmeccanici.
In esso sono contenute anche le regole sindacali della democrazia
che possono rappresentare un utile riferimento per lintero
movimento sindacale su cui si basi, come è già stato
con la legge Bassanini nel pubblico impiego, un quadro legislativo
di sostegno alle intese sindacali sul tema della rappresentatività.
***
E, infine, questo paese ha bisogno di ricostruire il suo stato
e la sua democrazia politica.
Da troppo tempo la transizione istituzionale è incompiuta.
Siamo approdati al bipolarismo politico. E abbiamo avviato una nuova
distribuzione dei poteri pubblici, accrescendo il ruolo delle amministrazioni
regionali e locali.
Ma al mosaico mancano tasselli fondamentali: un efficace sistema
di garanzie, pensato per un sistema maggioritario e non più
proporzionale; uno statuto dell'opposizione in un quadro bipolare;
una Camera delle regioni come strumento di raccordo tra l'attività
legislativa statale e quella regionale; il riconoscimento e il rispetto
della imparzialità delle istituzioni.
Sono esattamente i tasselli che mancano nel confuso e pericoloso
disegno di revisione della Costituzione che la maggioranza di centrodestra
sta imponendo al paese con la sola forza dei numeri.
La cultura liberale è divisione dei poteri. E' equilibrio
tra pesi e contrappesi. E' limiti che si frappongono alla concentrazione
del potere. E' primato delle regole, senso dello Stato e delle istituzioni,
cultura della legalità.
Il contrario della deriva illiberale che il centrodestra ha impresso
al sistema politico e istituzionale del nostro paese.
Si tratta di una deriva che non possiamo solo paventare. Va contrastata
in Parlamento e se la destra si intestardirà a far
approvare le sue proposte andrà battuta con il referendum
costituzionale.
Ma soprattutto il disegno illiberale del centrodestra si contrasta
avanzando al paese le proposte che abbiamo depositato in
Parlamento per dare compimento alla transizione: governo
del Primo ministro che risponda al Parlamento, un federalismo che
non moltiplichi il centralismo a scala locale, un ordinamento della
giustizia che individui nell'efficienza della macchina giudiziaria,
oggi a livelli inaccettabili in un paese civile, un obiettivo da
raggiungere insieme alla magistratura e all'avvocatura e non contro
l'una o l'altra.
Una democrazia moderna è tale se sa garantire la sicurezza
dei suoi cittadini.
Quando accade come a Napoli o in Sicilia che interi territori divengano
zona franca per lazione della criminalità; quando amministratori
pubblici come in Calabria sono ogni giorno soggetto
di intimidazione; quando si diffonde nellopinione pubblica
la percezione di non essere sicuri; ebbene lì la coesione
sociale e luguaglianza dei cittadini è in pericolo.
La sicurezza non è un tema di destra.
Ogni cittadino ciascuno di noi vuole sentirsi sicuro
e sapere che i suoi figli, la sua famiglia non sono in pericolo.
E garantire la sicurezza è un dovere di chiunque ambisca
a guidare la società. E se è vero che intervenendo
nel degrado e nella marginalità si riducono i rischi e le
devianze, è altrettanto vero che unazione sociale è
tanto più credibile e efficace se accompagnata da una altrettanto
determinata azione di lotta dello Stato e dei suoi poteri contro
la criminalità e ogni forma di insidia alla sicurezza dei
cittadini.
E parte di un assetto democratico in cui tutti possono riconoscersi,
un sistema dellinformazione non oppresso da posizioni dominanti.
Non si tratta solo di avere leggi adeguate e la Gasparri,
come la legge sul conflitto di interessi non lo sono in alcun modo
ma di cogliere loccasione delle nuove tecnologie per
aprire il sistema, liberalizzarlo, renderlo accessibile a operatori
e utenti.
La rete sta diventando il nuovo habitat della nostra vita. E come
chiediamo un ambiente vivibile, così vogliamo una rete accessibile
per tutti. Qui si gioca un aspetto essenziale di una democrazia
moderna.
E in questo quadro la Rai va liberata dal vassallaggio politico
a cui è sottoposta, per farla tornare a quel ruolo di civilizzazione
del paese a cui ha assolto per decenni.
Ma in questo obiettivo non lo si consegue con la privatizzazione
che viene proposta oggi, del tutto priva di consistenza economica
e rischiosa per il patrimonio di produzione e professionalità
dellazienda.
Per questo ribadiamo di qui la nostra contrarietà e ci impegniamo
fin da ora a un riassetto del sistema in cui il rapporto tra Rai
e mercato e anche un diverso assetto societario e aziendale riconosca
e valorizzi la funzione pubblica del servizio televisivo.
Ma nel frattempo lanciamo di qui una sfida: si metta fine alla vergogna
dellattuale CdA Rai. Disegniamo insieme un vertice che sia
indipendente e professionale. Lo si faccia e noi ci impegniamo a
non sostituirlo se vinceremo le elezioni.
Una democrazia moderna e liberale è anche quella che riconosce
il valore della laicità, la tutela e la promuove.
La laicità come terreno di confronto e dialogo, per costruire
convivenza. Laicità come antidoto ad ogni fondamentalismo,
garanzia di orientamento nellinedito di un futuro ormai presente.
Temi eticamente sensibili, che riguardano la sfera personale e più
intima della vita delle persone, così come il rapporto fra
culture, appartenenze, religioni,
richiedono oggi di andare oltre la libertà di coscienza,
interrogano la relazione fra libertà e responsabilità,
la ridefinizione costante del limite nella ricerca scientifica,
richiedono alla politica apertura della mente e capacità
di mediazioni alte.
E a questa visione che si ispirano le nostre proposte per
il riconoscimento delle forme di convivenza sia tra persone
di sesso diverso, sia in coppie omosessuali pur nel pieno
rispetto del principio costituzionale della famiglia fondata sul
matrimonio.
E questo lo spirito che ci ha animati nelliniziativa
per modificare radicalmente la legge sulla fecondazione assistita.
La nostra intenzione è sempre stata chiara: dare al paese
una buona legge che tuteli nascituro, la coppia, la donna, la ricerca.
E anche ora in Parlamento ci confrontiamo con serietà, ricercando
soluzioni vere e non accordi sotto tono. Ma se ciò non è
possibile con serenità, ci avviamo alla campagna referendaria
sui quesiti mirati che abbiamo promosso e sostenuto. E voglio ringraziare
ancora una volta le compagne e lintera organizzazione del
partito per lo sforzo immane fatto in poche settimane.
A chi dice che i referendum dividono il paese rispondiamo che, casomai,
lo rendono più moderno, come è avvenuto nei periodi
migliori della storia italiana. E in ogni caso non si tratta di
contrapporre credenti e non, ma di dare allItalia una legge
civile e responsabile, che chiunque possa condividere senza violare
i propri convincimenti etici o religiosi.
A chi ritiene che si debbano svuotare i referendum non partecipando
al voto, rispondiamo che le opinioni sono tutte legittime, ma che
la democrazia vive nella ricerca del dialogo, non nella fuga dal
confronto.
A chi infine pensa che sia imbarazzante la presenza di orientamenti
differenti nella nostra coalizione, rispondiamo che il pluralismo
è un valore che ci è molto caro e che lavoreremo per
allargare la partecipazione e conquistare consensi ai referendum,
mantenendo aperto un confronto sereno con ogni opinione.
***
Ma la deriva illiberale della democrazia italiana si contrasta
efficacemente se si rimuovono alla radice le cause storiche e politiche
che l'hanno prodotta.
Qui il cerchio si chiude. Il rischio di declino dell'Italia è
dovuto alla mancanza di riforme che rimettano in moto il Paese,
rimotivando le grandi energie di cui esso dispone, a impegnarsi
per il rinnovamento dell'economia e della società.
Ma il centrodestra non ha né le capacità, né
la cultura, né l'interesse a interpretare il nuovo e a guidare
il cambiamento.
E allora, care compagne e compagni, è tempo di togliere la
parola riforma dalle mani della destra, Riforma è
sinonimo di miglioramento, progresso, evoluzione positiva, conquista
civile.
Ed è anche tempo di essere noi rigorosi e intransigenti con
le parole: smettiamola di dire riforma Moratti, perché
quelle sono misure che non riformano, ma deformano la scuola.
Smettiamola di dire riforma Gasparri, perché
quella è una legge che comprime il pluralismo culturale e
imprenditoriale.
Smettiamola di dire riforma costituzionale perché
quello è un orrendo strappo istituzionale.
Chi sta a destra non è riformista.
A destra ci sono i conservatori che attuano politiche del
tutto legittime ma che non sono le nostre.
Noi siamo i riformisti e questa è la portata storica della
sfida che abbiamo davanti: l'unità dei riformisti per dare
una speranza all'Italia.
Anche in politica forma e sostanza si tengono: nessun progetto politico
è credibile, se non si sa chi lo realizza. E nessun soggetto
politico è credibile se non indica quel che vuol fare.
E, dunque, il centrosinistra deve proporsi come uno schieramento
in grado di assicurare i cittadini che saremo in grado di governare,
per unintera legislatura e assumendoci ogni responsabilità
che comporta guidare un grande paese.
Tre sono i cardini di questo progetto: un leader forte, unalleanza
larga, un timone riformista solido.
Nessuna di queste scelte vive da sola: un leader senza un forte
soggetto politico sarebbe esposto al rischio della deriva plebiscitaria
e antipolitica.
Una coalizione senza leader sarebbe muta davanti agli elettori e
disarticolata dinanzi alla necessità della sintesi politica
e programmatica.
Una coalizione senza guida politica riformista sarebbe esposta alla
paralisi e quindi a nuove forme di divisione.
Serve intanto una leadership forte, capace di parlare al paese,
di aggregare energie, di raccogliere una classe dirigente.
Mentre la destra scommette sulle virtù taumaturgiche e plebiscitarie
di un uomo solo al comando, noi vogliamo e dobbiamo
proporci come una classe dirigente ampia, diffusa, plurale.
Noi lo possiamo fare: perché abbiamo accumulato negli anni
una consolidata esperienza di governo locale e nazionale, selezionando
e promuovendo una nuova leva di dirigenti, di cui anche le candidature
alle prossime elezioni regionali sono testimonianza; e perché
il centrosinistra gode di un sistema ampio di relazioni sociali
in primo luogo nei tanti territori di questo paese
che consente di attivare energie, saperi, competenze.
Tutti insieme abbiamo scelto Romano Prodi e intorno a Prodi vogliamo
e dobbiamo schierare una nuova classe dirigente, che il centrosinistra
ha in misura certamente più ampia del centro destra.
In questa visione abbiamo detto sì a forme di investitura
democratica e popolare della leadership di Romano Prodi e le primarie
a questo devono servire: a unire il centrosinistra e a rafforzarne
la sua credibilità; non a dividerlo.
Un centrosinistra ecco il secondo cardine di riorganizzazione
del nostro campo che esprima unAlleanza Democratica
larga e coesa.
Certo, vince chi si presenta agli elettori con lo schieramento più
largo e più unito. Ma il cemento non può che essere
la condivisione di un progetto di governo e dei suoi assi strategici.
Nel dire questo non sottovaluto, né svilisco lansia
di liberazione dal berlusconismo che muove settori ampi di società.
Daltra parte se per tre anni consecutivi ogni passaggio elettorale
registra per la destra riduzione di consensi e disaffezione elettorale,
ciò significa bene qualcosa. Ma quella giusta domanda ha
bisogno di saldarsi con un progetto che parli allintero paese.
E, dunque, occorre accelerare il confronto programmatico nel centrosinistra,
non celando differenze e ricercando sintesi vere, che consentano
di offrire allItalia un programma di governo credibile e convincente.
Ma un leader forte e unalleanza di governo larga, hanno bisogno
di solido timone riformista.
Ed è questa la ragione della Federazione dellUlivo,
che non può essere letta come semplice soluzione organizzativa,
né solo come cartello elettorale.
C'è una grande bandiera per terra, la bandiera della rinascita
morale e civile dell'Italia, la bandiera di una politica pensata
e vissuta come impegno per il bene comune, la bandiera del primato
dell'interesse generale come unica via per una difesa non miope
degli interessi particolari.
Ma non potrà essere un florilegio di partiti rissosi ad alzare
la bandiera del riformismo. E non potrà essere neppure un
uomo solo, per quanto grande e forte.
Solo insieme, uniti nell'Ulivo, possiamo pensare così in
grande e puntare così in alto. Solo insieme, uniti nell'Ulivo,
possiamo dare alla democrazia italiana lo strumento democratico
che è indispensabile a rendere possibile un governo nuovo,
il governo che guidi l'Italia fuori dall'incubo del declino, verso
una nuova stagione di sviluppo.
E' per questa analisi storica e per questa visione politica
e non per immediate convenienze elettorali, che anzi ci avrebbero
forse consigliato il contrario che un anno e mezzo fa abbiamo
risposto con un sì convinto e deciso, alla proposta di Romano
Prodi di dar vita ad una lista Uniti dell'Ulivo alle elezioni europee,
votata da 10 milioni di persone, affermandosi come la prima forza
del Paese. Ed è per questo che ci siamo battuti perché
l'Ulivo si presentasse agli elettori se non in tutte come
noi avevamo proposto almeno nella grande maggioranza delle
Regioni.
Ed è in forza di queste stesse, grandi ragioni, che abbiamo
voluto sottoporre al Congresso, coinvolgendo nella decisione centinaia
di migliaia di iscritti ai Democratici di Sinistra, la proposta
di dar vita ad una Federazione dell'Ulivo, insieme alla Margherita,
allo Sdi, ai Repubblicani europei.
Sappiamo bene che lungo più di cento anni il riformismo italiano
si è manifestato in modo plurale: il riformismo socialista,
di cui noi siamo tanta parte; il riformismo del cattolicesimo sociale;
il riformismo di ispirazione laica e repubblicana. E in anni più
recenti il riformismo ambientalista.
Sono le culture democratiche e riformiste che in ogni passaggio
cruciale della storia italiana si sono date il compito, di
incarnare le speranze di cambiamento, il miglioramento delle condizioni
di vita e di lavoro, una spinta verso la libertà e lemancipazione,
una crescita delle opportunità civili per tutti.
Oggi queste stesse forze si pongono lobiettivo ambizioso di
andare oltre la collaborazione, la convergenza, lalleanza.
La Federazione dellUlivo, come progetto comune delle culture
riformiste; come luogo di incontro e di comune azione; come patto
che ci vincola reciprocamente a costruire insieme lavvenire
del paese.
La Federazione come soggetto capace di far incontrare i partiti
del riformismo con quelle soggettività culturali, sociali
e di movimento di cui è ricca la società italiana.
Infondata è la contrapposizione tra riformisti e radicali,
perché semmai radicalismo si oppone a moderatismo.
Ma noi non siamo moderati, noi siamo riformisti. E come ammoniva
spesso, un grande riformista come Francois Mitterand, il riformismo
non è la destra della sinistra.
E nel tempo di oggi riformare cioè cambiare
lo stato esistente delle cose non è meno difficile,
né meno nobile di una tensione rivoluzionaria.
Il riformismo è la capacità di saldare lidealità
di una visione con la concretezza del quotidiano.
Il riformista è colui che non solo si dà obiettivi
e strategie, ma indica anche con quali strumenti, con quali risorse,
con quali rapporti di forza, attraverso quali gradualità
raggiungerli.
Riformismo è cultura di governo, è pragmatismo in
luogo di ideologismo, è riconoscimento dei meriti accanto
al rifiuto dellingiustizia, è soprattutto senso di
responsabilità istituzionale quando si è alla guida
del Paese come quando si è allopposizione. Ma non è,
non è mai stato e non può essere lequidistanza
geometrica tra destra e sinistra, lincapacità di esprimere
giudizi netti, il rifiuto di testimoniare altri valori e altri principi.
E per essere riformisti cè bisogno di valori forti,
passione civile, tensione ideale, principi etici.
E la radicalità dei convincimenti è, dunque, parte
di una cultura riformista.
Soprattutto, il riformismo non è la fuoriuscita dalla sinistra.
E la volontà di far incontrare i valori di liberazione,
giustizia, progresso della sinistra con la modernità e la
sua complessità economica e sociale.
E oggi questo si traduce nel costruire anche in Italia un soggetto
federativo a vocazione maggioritaria, incentrata sullEuropa,
che occupi quello spazio di innovazione, di progresso, e di giustizia
sociale con cui in altri paesi la sinistra riformista ha già
dimostrato e dimostra di poter competere con la destra.
Questo è il senso della Federazione.
Non un partito unico. Perché i partiti non si fondano, né
si sciolgono a tavolino.
I partiti sono formazioni storiche che affondano le loro radici
nella civiltà di un popolo, nelle culture di un paese. Sono
intreccio inestricabile di valori e di interessi materiali. Vivono
della passione, dei sentimenti, delle ansie e delle aspettative
di milioni di donne e di uomini.
Senza partiti, la democrazia deperisce e il potere passa di mano:
quando va bene, con la supplenza delle grandi tecnocrazie, quando
va male, con il formarsi e il consolidarsi di gruppi di potere,
che occupano lo Stato e lo trasformano in strumento di potere al
servizio di interessi privati. E lantipolitica avanza.
E senza grandi partiti democratici non può esserci né
stabilità dei governi, né ricambio delle classi dirigenti,
né tanto meno quella mobilitazione delle energie intellettuali
e morali, senza le quali nessuna riforma, per quanto necessaria,
diventa possibile.
Proprio per questo la sfida di agire insieme, di vincolarci reciprocamente
ad unazione comune, di strutturarci in Federazione, è
tanto più fattibile in quanto i partiti vi concorrano con
la loro forza, le loro culture e le loro radici.
Ma questi partiti, e in particolare quelli che aspirano a cambiare
le cose esprimono una tensione riformista, non sono totem impenetrabili
da placare con sacrifici umani.
I partiti non sono immutabili nel tempo.
La loro identità evolve con la società che ambiscono
a rappresentare. E oggi dalla società italiana viene una
domanda di unità.
Federazione e partiti: luna tiene gli altri. Così come
l'Unione Europea ha una sua soggettività, ambiti di competenze,
regole e strumenti, senza che questo significhi la sparizione degli
Stati nazionali, ma anzi riceve legittimità ad agire dagli
Stati nazionali, così l'Ulivo che nasce per volontà
dei partiti e da essi trae legittimazione ha anch'esso bisogno
di una elaborazione propria, di regole autonome di funzionamento,
di criteri e strumenti democratici di selezione delle candidature
e della leadership, di ambiti di competenza riconosciuti.
A tutto questo i DS sono pronti e da questa assise congressuale
vogliamo riconfermare a Romano Prodi e agli amici dellUlivo
la nostra ferma determinazione ad operare perché la Federazione
dellUlivo si costituisca in modo sempre più riconoscibile
e riconosciuto come la forma politica e organizzativa con cui il
riformismo opera per tornare a governare lItalia.
E tutta la nostra storia ad essere stata ispirata dalla ricerca
dellunità: della sinistra, dei riformisti, dei democratici.
Quindici anni fa superammo il Pci e fondammo il Pds con questo obiettivo,
facendo fino in fondo i conti con il comunismo e riconoscendo che
il socialismo democratico e il riformismo erano lunico campo
nel quale la nostra esperienza storica e le nostre idee potevano
continuare a essere feconde.
Otto anni fa trasformammo il Pds in Democratici di Sinistra, per
unire già dentro di noi culture ed esperienze di diversi
filoni riformisti.
E a Pesaro, tre anni fa, dichiarammo con un voto esplicito
la nostra disponibilità a essere parte di un nuovo
progetto unitario.
E dunque unispirazione unitaria che viene da lontano
quella che ci muove. E oggi conosce la nuova sfida di unire il riformismo
per realizzare quel che in Italia non è ancora mai accaduto:
raccogliere intorno al riformismo un consenso maggioritario del
paese.
Nel farlo ci apriamo al confronto e allincontro con partiti
che vengono da storie e formazioni diverse.
Allo Sdi di Enrico Boselli ci unisce la condivisione dei valori
e dei principi del socialismo democratico. Ai Repubblicani europei
di Luciana Sbarbati la comune appartenenza alla sinistra italiana.
Alla Margherita che con Francesco Rutelli ha dato forma alloriginale
incontro del cattolicesimo democratico con valori liberaldemocratici
ci unisce la comune tensione a fondare il riformismo su valori
di libertà, uguaglianza, solidarietà, rispetto della
persona.
A questa nuova impresa ci accingiamo con animo aperto, con spirito
di ricerca, con la volontà di costruire insieme ai nostri
alleati una casa in cui non ci siano maestri e discepoli, ma soltanto
riformisti, con pari dignità e uguali diritti, uniti dallobiettivo
di rappresentare al meglio gli interessi degli italiani.
Siamo sicuri che nei nostri alleati vi sia la stessa nostra convinzione
e determinazione.
E, comunque, noi lavoreremo con tutte le nostre forze perché
il riformismo sia vincente.
Daltra parte un forte timone riformista è anche la
condizione per rendere più credibile la larga Alleanza Democratica
di centrosinistra.
E una delle ragioni dei successi elettorali del 2002, 2003, 2004
sta proprio nella ritrovata unità, che ricomponendo
la frattura tra Ulivo e Rifondazione Comunista e Italia dei Valori
ha consentito così larghi successi dal Friuli alla
Sardegna, da Verona a Pescara, da Bologna a Bari, dalla Provincia
di Milano alla Provincia di Roma.
E anche alle regionali del prossimo aprile la grande Alleanza Democratica
si presenta unita.
Ma, appunto, la sua credibilità di coalizione sarà
tanto più forte in quanto sia visibile chi la guida e con
quale politica.
E tanto più se il centrosinistra si aprirà anche ad
altre convergenze, come con il Partito Radicale di cui apprezziamo
la importante disponibilità a camminare insieme a noi. Una
disponibilità che siamo pronti a raccogliere in tutte le
Regioni chiamate al voto, con un impegno di comune azione di legislatura
che assicuri gli elettori sulla stabilità delle future amministrazioni
regionali.
***
A queste nuove sfide noi DS vogliamo concorrere con la nostra storia
e la nostra identità.
Lidentità di una forza di sinistra, riformista, che
si riconosce nei valori del socialismo democratico europeo, che
è lunica esperienza di sinistra che ha saputo coniugare
giustizia sociale e libertà, sviluppo e redistribuzione,
competitività e uguaglianza.
Unesperienza che, sorta in Europa con le socialdemocrazie,
ha saputo allargare il suo sguardo ad orizzonti globali più
ampi, assumendo temi cruciali per il destino del pianeta, quali
la necessità di nuove relazioni di scambio tra nord e sud
e lurgenza di fondare lo sviluppo su basi sostenibili.
Unesperienza che anche in questi anni non si è proposta
come statica, se è vero che Schroeder in Germania, la Brundtland
in Norvegia, Tony Blair in Gran Bretagna, Gonzales e Zapatero in
Spagna sono stati e sono portatori di innovazioni miranti a far
vivere luguaglianza nella società flessibile e a misurarsi
con le nuove sfide del globale. E non è per caso che quando
Lula, Nelson Mandela, Arafat hanno voluto collocare i loro movimenti
in una dimensione politica internazionale, abbiano scelto lInternazionale
Socialista. E che anche i Democratici americani abbiano scelto lInternazionale
come linterlocutore per comuni strategie globali.
A questo campo apparteniamo noi, così come peraltro indica
il nostro simbolo, nel quale alla Quercia si affianca la Rosa dei
socialisti europei e il richiamo, che espliciteremo per esteso,
al Partito del Socialismo Europeo di cui siamo stati fondatori nel
novembre del 92 e di cui saluto il suo Presidente Nyrup Rasmussen.
Unappartenenza politica e culturale coerente con il carattere
plurale dei Democratici di Sinistra, sorti otto anni fa dallincontro
del Pds con lesperienza dei Cristiano Sociali, di Socialisti
e Laburisti, Comunisti Unitari, Repubblicani.
E in questi giorni questo nostro profilo pluralista si è
ulteriormente arricchito delladesione di Edo Ronchi e un gruppo
di personalità provenienti dal mondo ambientalista e verde
e di Luigi Manconi, portatore di sensibilità maturate sui
temi dei diritti civili.
E ciò non solo non contraddice la nostra volontà di
concorrere alla Federazione dellUlivo, ma ne rafforza la credibilità.
Proprio perché i DS sanno unire dentro di sé culture
e storie diverse, possono maggiormente concorrere allincontro
dei diversi riformismi italiani.
E anche in questo caso, peraltro, può soccorrere lesperienza
europea nei cui partiti socialisti e socialdemocratici, convivono
da tempo correnti cristiane si pensi a Jacques Delors
culture ambientaliste, esperienze liberaldemocratiche e movimenti
radicali.
***
I Democratici di Sinistra, dunque, hanno deciso.
Sappiamo che non tutto dipende da noi.
Ma sappiamo anche che possiamo cimentarci con questa nuova sfida
proprio perché non siamo più il partito smarrito e
incerto di tre anni fa.
Limpegno di tutti e quando dico tutti, intendo delle
nostre diverse sensibilità, così come dei nostri gruppi
dirigenti regionali, provinciali e locali ci ha consentito
di uscire dal cono dombra della sconfitta, di ricostruire
relazioni con la società, di ritrovare più ampi consensi
elettorali, di radicare ulteriormente la nostra forza e rinnovarla.
Tre soli dati richiamo alla vostra attenzione: con oltre 600.000
iscritti ai DS e alla Sinistra Giovanile siamo la più grande
forza politica italiana e la seconda in Europa; in questa platea
congressuale, per prima volta, abbiamo il 40% di delegate a conferma
che la parità della rappresentanza noi labbiamo presa
sul serio; una nuova generazione di dirigenti sta prendendo nelle
sue mani il partito e già oggi il 40% dei nostri Segretari
Provinciali ha meno di 40 anni e questo rinnovamenti investirà
ora anche il gruppo dirigente nazionale.
E siamo oggi un partito più unito di tre anni fa.
Una unità non fondata sul conformismo o sullannullamento
delle differenze, ma al contrario sul loro riconoscimento e sulla
loro fecondità.
Sono tutti segnali di buona salute. Di un partito radicato e forte,
guidato da un gruppo dirigente largo, autorevole e riconosciuto.
Di tutto ciò desidero ringraziare ogni compagna e ogni compagno
e in particolare, Massimo DAlema che vi propongo di riconfermare
Presidente dei Democratici di Sinistra.
Tutta la nostra storia ci ha insegnato che la nostra forza è
feconda se non è vissuta in solitudine.
Noi vogliamo essere lievito, forza aggregante, motore unitario.
Quanto più uniremo, tanto più la nostra funzione dirigente
sarà utile alla sinistra e allItalia.
Chi sente forti le proprie ragioni, robuste le radici sulle quali
si regge, grandi le idee per le quali lotta, non ha paura di aprirsi,
di incontrarsi con altri, di unire storie, culture, forze, organizzazioni,
in un comune impegno al servizio del Paese.
Ecco questa è la nostra sfida, la sfida riformista.
A questa nuova prova andiamo forti della nostra identità
e dei nostri valori, che guardando al mondo, così come osservando
la società italiana, appaiono più attuali che mai.
Penso al valore della pace, intesa non soltanto come assenza di
guerra, ma come assunzione della non-violenza quale fondamento delle
relazioni tra le persone, tra i generi, tra le nazioni.
La non-violenza come valore su cui fondare una società libera
da ogni forma di oppressione e discriminazione.
Questo è quel che chiedevano milioni di giovani che hanno
percorso le strade dItalia e dEuropa con le bandiere
della pace.
Un sentimento così ampio e diffuso da indurre un creativo
pubblicitario, sensibile e intelligente, a ricorrere proprio in
questi mesi allimmagine di Gandhi per trasmettere a milioni
di persone un messaggio di fratellanza e amore.
Penso al valore delluguaglianza, parola che sembrava appartenere
ad un altro secolo e che invece oggi torna di piena attualità
di fronte alle disparità enormi che segnano il pianeta e
alle forme nuove di ineguaglianze pensiamo al lavoro
che percorrono anche le società opulente come la nostra.
Penso alla parola solidarietà e la metto in connessione con
quellaltra parola solitudine e vedo quanto oggi
nella nostra vita ci sia bisogno della prima per vincere la seconda.
E di fronte alle tante solitudini della modernità
la solitudine dei bambini, la solitudine degli anziani, la solitudine
delle famiglie risulta ancora più chiaro: quanto essere
di sinistra, essere riformisti, voglia dire battersi perché
nessun sia solo, nessuno si senta solo, nessuno sia lasciato solo.
E penso, infine, alla parola libertà che racchiude dentro
di sé quei valori la dignità della persona,
luguaglianza dei diritti, il riconoscimento dellaltro,
lessere padroni del proprio destino per la cui affermazione
vogliamo batterci finché anche un solo uomo, una sola donna
di questa terra sia vittima di oppressione, umiliazione e negazione.
Quella libertà per cui 60 anni fa una generazione scelse
di battersi contro il nazismo, il fascismo, lorrore dellolocausto,
per riscattare lonore dellItalia e la dignità
degli italiani.
Così, forti della nostra identità, orgogliosi della
nostra storia, consapevoli delle responsabilità che abbiamo
verso lItalia, noi vogliamo agire.
E lo vogliamo fare insieme a milioni di donne e di uomini che credono
in un futuro migliore per sé e per i propri figli e vogliono
combattere per ottenerlo.
Non siamo nati soltanto per noi soli: sono parole bellissime
di Platone di cui Marco Tullio Cicerone ci parla nel De Officis.
In quelle parole cè la consapevolezza che ciascuno
di noi ha bisogno dellaltro e, anzi, lidentità
stessa di ognuno si forgia nellessere parte di una comunità,
di un popolo, di una nazione di cui condivide vita e destino.
Questo siamo noi, i Democratici di Sinistra.
Una grande forza che vive ogni giorno le stesse ansie, le stesse
speranze, gli stessi dolori e le stesse gioie di milioni di donne
e uomini del nostro Paese.
Così come in tanti altri momenti cruciali della vita
dellItalia noi siamo pronti.
Gli italiani possono contare su di noi.
E noi non deluderemo le loro speranze.